Testimoni:
g Bd, f.
140r:
/dellib(ro)/ de laffrica g2 Cp392, f. 188v
g3 Tou2102, ff. 130v-131r
V4784, f.
125vMc1, f. 133v [attr. collettiva f. 129r:
Di M(esser) Franc(esc)o Pethrar(ca)].
Schema metrico: Sonetto ABBA ABBA CDC DEE, con C in assonanza
Come
Non so in qual parte, anche questo testo è tessuto sulla trama di un sonetto petrarchesco subito celebre e da subito imitato,
Rvf 102 Cesare, poi che ’l traditor d’Egitto, di cui riprende non solo l’andamento prosodico del memorabile incipit, ma anche svariate immagini e clausole felicemente rielaborate: v. 3
il don de l’onorata testa : vv. 2-3
le spoglie | de l’onorate mano; vv. 1-4
Africa ... pianse : vv. 1-3
Cesare ... pianse; v. 8
per isfogare il suo acerbo despitto: v. 8
ch’acquetò el cor aflitto; v. 9
Et così aven che : v. 9
Così convien ch’io. Proprio da
Rvf 102, seconda quartina (
Hanibàl, quando a l’imperio afflitto | vide farsi Fortuna sì molesta), è ripreso qui il tema della prima – il capovolgimento della fortuna bellica cartaginese dopo la vittoria di Canne – che tiene presente anche il sonetto
Rvf 103,
Vinse Hanibàl, et non seppe usar poi, formante insieme al precedente un dittico di fragmenta di erudizione.
L’Africa nel cui nome il testo si apre è dunque, con sineddoche antonomastica, Cartagine, e ha poco che vedere con l’omonimo poema latino, come il postillatore di
Bd, a caccia dello
scoop petrarchesco, aveva frettolosamente annotato per poi correggersi:
/dellib(ro)/ de laffrica. Le
spoglie delle
onorate mano sono identificabili, sulla scorta di
Urb. cond. XXIII 12, come gli anelli saccheggiati alle salme dei soldati romani uccisi, di cui Annibale fece inviare più di tre moggia alla Curia di Cartagine, quale segno della sanguinosa battaglia: l’aneddoto liviano è molto diffuso, citato da Dante sia nel
Convivio (
IV, V 19) che nella
Commedia (
Inf. XXVIII 7-12), ma quest’ultima, che impiega proprio lo stesso lemma
spoglie in rima –
per la lunga guerra / che de l’anella fé sì alte spoglie / come Livïo scrive, che non erra – è dunque un altro tassello su cui è assemblato il presente sonetto.
Tutti i vari editori – il Mezzabarba di Mc
1,
Vattasso e
Solerti – intendono
vigore come oggetto di
abandonò coordinato con
le spoglie, mettendo a testo
Africa... abandonò le spoglie... e ’l vigore, sulla scorta di Bd che legge
el vigore. Ma lo scioglimento
e ’l non è necessario, perché
el è normalmente l’articolo determinativo in Bd (al v. 14 per es.
scusando el ben voler), mentre tutto
g2 legge
il. Non si vede poi come spiegare che l’Africa
abbandonò tale bottino, quando ci si aspetterebbe, alla luce dell’episodio citato, il significato opposto, “depredò senza lasciar nulla” (il
GDLI, sign. 12, registra anche un’accezione di
abbandonare come “privare qualcuno di qualcosa”, qui estremamente calzante, ma essa non pare attestata in data così alta e infatti non si trova nel
TLIO; a ogni modo se così fosse dovremmo trovare
abbandonò le mani delle spoglie, non già il contrario). Escludendo un intervento congetturale, per es.
abandonò le spoglie >
ab[o]ndò n[e]le spoglie, in effetti non privo di efficacia, l’unica soluzione praticabile è assegnare a
il vigor funzione di soggetto della frase, intendendo che, venuto meno con la morte, «il vigore loro (= delle mani) abbandonò (alla mercé dei nemici) le spoglie delle mani (= il bottino di anelli)». Non si nasconde tuttavia come tale interpretazione abbia lo svantaggio di lasciare ingiustificato in principio di verso
Africa, che non ricopre alcuna funzione nella temporale introdotta da
poi che, acquisendo un ruolo sintattico solo al v. 3 come sogg. di
pianse (struttura non simmetrica a quella degli ipotesti: «Cesare, poi che ’l traditor d’Egitto | li [
a Cesare, dat.] fece il don de l’onorata testa»; e ancora più la riscrittura di Antonio Beccari, «Cesare, poi che [
Cesare, sogg.] ricevé il presente»).
Non collide invece in nessun modo con la ricostruzione proposta la lezione
ei corpi al v. 3, promossa dallo stemma (si sottraggono Cp392 e Mc
1,
i corpi): la
e iniziale potrebbe infatti trarre in inganno e indurre a coordinare
i corpi con un elemento antecedente, indirizzando verso una lettura con oggetti coordinati
Africa ... el vigor loro pianse, e i corpi, etc. Ma sarebbe un errore: in questo gruppo di codici, e in particolare in Bd,
ei è la forma normale dell’articolo maschile plurale davanti a consonante semplice, come determinato da casi non ambigui quali
Quello augellin, v. 13:
sono ei begli occhi;
Il tempo e ’l loco, v. 9:
benedetti tutti ei martiri, e come si ritrova con costanza nella poesia perugina del Trecento (Neri Moscoli, 32, v. 8; 33, v. 14; 52, v. 4; 55, v. 13; 80, v. 2; 92, v. 3; Cecco Nuccoli, 16, v. 3; Marino Ceccoli, 3, v. 1; 8, v. 3; 22, v. 14; etc. [ed. Marti]).
Con un dilemma che già i manoscritti si pongono, al v. 6 è possibile interpungere variamente, senza che il senso cambi:
puo’ che la spen ... lasciò del tutto Orpheo, per suo ristoro tornò, come fa
Bd, che appone un comma dopo
Orpheo, oppure
puo’ che la spen ... lasciò del tutto, Orpheo per suo ristoro tornò, come
V4784, che appone un comma prima di
Orpheo. Si segue il testo base Bd, come sempre in questi casi di adiaforia.
È comune a tutti i manoscritti (ma di una correzione in Bd si dirà subito) la lezione
voglia al v. 13, laddove il senso richiede certamente il verbo
volgere:
l’anima, commossa | ad ira, volga
a pace et a conforto. La soluzione che Solerti precisa in apparato, di mettere a testo
voglia ma come variante formale di
volga, è accettabile solo a costo di una forzatura, se di tale forma si registrano minime attestazioni nei repertori. È d’altronde evidente che i manoscritti intendessero proprio
voglia in senso sostantivale, dal momento che il segmento precedente viene separato, anziché come
ad ira, come
a dira voglia in V4784 e Mc
1 (ambiguo
adira in Cp392 e Tou2102). Quanto alla lettura di Bd, soggetta a un precoce ritocco, è arduo discernere se si tratti di
volgha ritoccato in
volglia o non piuttosto del contrario, ma questa incertezza non inficia la restituzione del luogo, in ogni caso sicura. La sintassi fortemente inarcata fra vv. 12 e 13 innesca poi qualche equivoco generale, con incertezza sulla distribuzione delle preposizioni
a, che si aggiungono o si sottraggono indebitamente all’accumulo (
adira auoglia e a pace e a conforto in Cp392,
a dira uoglia a pace et conforto in V4784).
Lo snodo
g2 si dimostra qui con
vogliosa per
voglioso, indotto dall’accordo al femminile con l’
Africa appena menzionata e dall’allineamento a
perduta successivo; e con
piansi per
pianse al v. 3, forse uniformato alla prima persona per un fraintendimento di
abandono (= “abandonò”) del v. 1, ma in realtà salvabile come variante formale (cfr.
Il tempo e ’l loco).
Che Mc
1 abbia prelevato il testo da
g e non da fonte esterna, provabile
ad abundantiam, è qui mostrato dalla sua partecipazione alla succitata variante
voglia. E entro
g, il fatto che il codice non rechi gli errori di
g2 appena menzionati suggerisce di valutare una sua vicinanza a Bd. La separazione
a dira voglia comune a Mc
1 e V4784 è d’altronde del tutto poligenetica, mentre è solo una variante formale la riduzione di
ei corpi in
i corpi, che Mc
1 condivide con Cp392. È invece probante che, come ricordato, Mc
1 legga
e ’l vigor, scioglimento possibile solo a partire dalla variante di Bd, unico a leggere
el vigor anziché
il vigor.
Non è privo di interesse il contatto fra Cp392, che a v. 6 legge
piansi per
lasciò, con errore di ripetizione da v. 3, e la mano ormai di pieno Quattrocento che in Bd, in margine al corretto
lasscio, aggiunge proprio la variante
al(iter) pianse: segno che questo gruppo di manoscritti poté restare a contatto e in un’area di circolazione ravvicinata anche molto tempo dopo la sua stesura.
Senz’altro da rifiutare è poi a v. 14 la lezione di Solerti
bon per
ben, attinta da un ritocco del solo Mc
1; e così pure la sintassi adottata da Vattasso alla seconda quartina, che interrompe il periodo con punto e virgola dopo
Orfeo, probabilmente per una, del tutto ingiustificata, resistenza a
poi come congiunzione subordinante (= “poi (che)”).
La rima C,
vada :
disiava, è imperfetta, solamente omovocalica. La tendenza alla rima irrelata nei terzetti non pare sconosciuta ai testi tramandati da
g (cfr.
Nel tempo quando l’aier; ma anche il problematico
Quant’era amata, v. 10), ma uno schema CDE DFF, con C e E entrambe libere, sarebbe del tutto abnorme anche ammettendo una proliferazione di forme. Preciso subito che è impossibile pensare a una vera e propria lacuna, es. CDE [EC]D FF, perché le due terzine sono ciascuna sintatticamente molto compatta, e un forte enjambement dopo la seconda di esse,
commossa | ad ira, sarebbe una soluzione peggiore del problema, se si tiene conto del tipico carattere ‘avulso’, auto-sufficiente e come scisso del distico baciato in coda. Non mi è possibile offrire una congettura persuasiva, ma si dovrà almeno menzionare che è attestata la rara forma
vava, “vada”, con plurime occorrenze in due testi emiliani del corpus OVI (
Laud. Battuti Modena e
Flore de Parlar di Giovanni da Vignano). Una correzione, d’altronde, non sembra veramente necessaria: nei Repertori metrici prevale la tendenza a considerare quale rima per assonanza un caso come il presente, che dunque classifico regolarmente CDC DEE. A un primo sguardo, rime per assonanza non paiono rare nel
corpus delle disperse, come si vede dalle indicazioni della
Tavola metrica di Vecchi Galli,
Postfazione, pp. 411-14; e tuttavia, alla verifica, molte di esse sono riconoscibili quali guasti testuali, e quando invece originali, in testi di fattura mediocre. Fuori dalle disperse, reperisco un esempio accostabile al nostro – dove l’occhio ‘recupera’ in sede protonica la consonante mancante alla rima, con illusione ottica (
vada : -
ava) – nella tenzone fra Manno,
Siete color di tutto, e Polo Zoppo,
Ser Manno, vostro detto [Ch 355-356], le cui quartine associano in rima B
modo con
domo :
como :
omo.