Testimoni:
Pr1, f. 13r: m. f. p.
Due loci problematici nel testo:
i(n) prima, errore evidente del v. 6, è quello di maggior portata, cui Solerti ha reagito, diversamente dal solito, con atteggiamento rinunciatario (l’edizione presenta in coincidenza del segmento dei punti equivalenti a delle
cruces desperationis), pur senza peritarsi di proporre dubitativamente in apparato la poco efficace congettura
impreco, rispetto alla quale ammette anche: «non basterebbe a compiere il verso». Postulato l’errore paleografico, una congettura non molto dissimile dalla soluzione intravista dall’ultimo editore,
in spregio – previo scioglimento di
chio del testimone in
ch’i’ ò, contro Costa e poi Solerti (
ch’io) –, ha il vantaggio di salvare metro (forte, ma non rara la doppia dialefe
ch’i’ ˅ ò ˅ + voc.) e senso: il costrutto
avere in spregio si ritrova peraltro in un autore culturalmente affine alla tradizione delle disperse come Francesco Landini (
Somma felicità, sommo tesoro, 9 «Ma ’l servo tuo, che sè fontana e lume | d’ogni virtù, fra l’altre onore e pregio, | l’alma benigna tua non l’abbia in spregio). Si dovrà però ammettere da parte del copista o della tradizione cui ha attinto l’iniziativa di ristrutturazione sintattica di questo e del verso seguente in forma dativale (
a tutti gli elementi…
a la natura ai cieli). Il secondo guasto s’individua al v. 10 (
chome vien laspa), rispetto al quale merita di essere accolta la congettura di Solerti, «come vien la spada» – già prefigurata da «c[h]ome uien la spa’ (sic)» di Costa –, necessaria per la misura dell’endecasillabo ed economica per la spiegazione dell’eziologia dell’errore, che s’intende di natura aplografica, posta la contiguità di due sillabe identiche («spada», «dame»). Due ulteriori correzioni di segno opposto si rendono necessarie ai vv. 9 e 12 in sede rimica. La prima,
maestro >
mastro, pacifica, perché assicurata dalla serie (
impiastro, v. 11;
vincastro, v. 13: la stessa di
Inf. XXIV, 14-18), e tuttavia respinta da Solerti a costo della riduzione
core >
cor, questa volta per eccessiva ricettività verso le scelte di Costa, che pone tra quadre la vocale; la seconda,
mi dispolpo (ʻmi consumoʼ, dall’originario
mi discolpo), apparentemente più onerosa, nella misura in cui sacrifica una triade di rime ricche, trova la sua spiegazione eziologica proprio nella catena mnemonica che la sua collocazione determina: solo fortuita ma istruttiva – per l’appunto perché conferma la natura potenzialmente poligenetica dell’errore in questa costellazione fonica – la coincidenza con la tradizione di Antonio da Ferrara, IV, 44-48 («io te renego e del mio mal t’incolpo | […] con questa mia vergogna io me dispolpo | e con questa pazzia corro a la morte, | senza pensar quanto sia appresso el colpo») che presente il medesimo accidente nel gruppo dalla Bellucci associato (poco importa qui quanto persuasivamente) sotto il subarchetipo α (vd. Antonio da Ferrara,
Rime, 1967, p. LII). Il testo, incuneato tra due sonetti di corrispondenza fra il Petrarca e Antonio da Ferrara (
Io provai già quanto la soma è grave,
Perché non caggi nelle oscure cave entrambi privi di attribuzione) e due disperse adespote (da altri codici attribuite rispettivamente a Dante e Giovanni Quirini) – blocco che a sua volta si colloca entro una serie disordinata di
Fragmenta – è il solo del nutrito novero degli unica di Pr
1 ad essere esplicitamente attribuito al Petrarca dalla rubrica.
[Dario Pecoraro]