Testimoni:
XYZ
xx
V8914, f. 83v;
xx1
Est16, f. 136r-v;
xx2
Bo1, f. 64r;
1532Fau, f. E1v: DIL PETRARCA > Mc314, f. 130v;
yy
B4051, f. 19v: Sonetto digiouan(n)j pegholottj;
yy1
Mg26, f. 17v: Sonetto ⸱ digiouannj pegholottj;
yy2
C8, f. 173r-v;
Mg19, f. 76v;
zz
Mg14, f. 117v;
Ox12, f. 40v: karolj aretinj;
V6, f. 55v: Messer carlo dareço.
Bibliografia: Solerti,
Disperse, p. 244; Lanza,
Lirici toscani, II, p. 245.
Schema metrico: ABBA ABBA CDE CDE
La lezione del v. 4
e pria Benago andrebbe al monte Armeno, poco cogente pure in regime di
adynaton, induce a prospettare l’esistenza di un archetipo
XYZ. Vi reagisce Mg
14, riformulando
& pria ben uagho riderebbe il Rheno, e forse, indipendentemente, anche
yy1, con la banalizzazione
almeno; di incerta valutazione la testimonianza di Ox
12, anche questa in una diramazione indipendente dalle altre (
zz),
benargo, forse semplice
lapsus calami. Il restauro del passo è rischioso perché il guasto potrebbe individuarsi tanto in
Benago (la scrizione con la sorda non si dà prima del Cinquecento, nella sola diramazione
xx2) quanto in
Armeno, ma vale la pena chiedersi se all’origine non sussistesse una preziosità geografica come
Anxio (
e pria ben Anxio andrebbe al monte Armeno), sull’autorità del Boccaccio (
De montibus, V 99, p. 1915**): «Anxius fluvius (ut quidam volunt) ex monte Armenio nascitur et per Caucasum in Mesopotamiam transiens occurrit Pactolo flumini ex Caucaso cadenti, et unum facti in Eufratem demerguntur». L’ipotesi dell’archetipo trova peraltro la conferma nell’errore
abeno, comune a tutta la tradizione, e che pare correttamente sanato in
(h)ebèno (< lat. EBĔNUM, ʻèbanoʼ, con diastole) nell’ambiente filologicamente più sorvegliato di Bo
1 1532
Fau (
xx2): il tardo Mc314 eredita, come sempre per questo testo, dalla stampa.
Si distingue chiaramente la famiglia
xx per gli errori ai vv. 5 e 13:
lassasti (di Est V8914, mentre
xx2 recupera con una congettura ovvia la lezione genuina) e
amor, subentrato quest’ultimo per interferenza mnemonica del v. 10 (
come non usi qualche gentilezza |
a tanto amor, quant’io bramoso avampo?) sull’originario
martir, e al quale il rappresentate più autorevole della famiglia, V8914, ha cercato di reagire
ope ingenii congetturando
dolor. Con l’innovazione sintattica e semantica dura di Est
16 xx2 (Bo
1 1532
Fau e il suo descriptus Mc314), da riferirsi a madonna, anziché al
freno, si scende di un gradino ulteriore nei piani più bassi di questa ramificazione (
xx1), individuata anche dall’inversione
o busso o cerro (gli altri testimoni:
o cerro o busso).
L’errore
celata (per
gelata) caratterizza la famiglia
yy. In questo gruppo, l’alterazione prosodica
in quanto, subentrata nel v. 10 e ancora rintracciabile in Mg
26, ha prodotto una lacuna nel collaterale di quest’ultimo
yy1, forse a seguito di malriusciti tentativi di sanare l’ipermetria (
Adtanto amore quanto io auampo Mg
19 /
A tanto amore quanto i pur auampo C
8: con
pur zeppa evidente per supplire all’ipometria). Solo sull’innovazione potenzialmente poligenetica
o dur(o) (Mg
14 & duro) più i testimoni Mg
14 Ox
12 V
6 si congiungono in
zz; per il secondo e il terzo vale però anche la comune attribuzione del sonetto a Carlo d’Arezzo, caduta nell’altro codice, assai propenso a innovazioni singolari.
Nell’alternativa adiafora del v. 3,
rivocherebbe /
rivolgerebbe, si segue B4051
rivogherebbe (la forma ha un’occorrenza in
Giovanni dalle Celle, Lettere, 33, 434.3: «egl’è vero che ciascheduno pastore dee
rivogare l’anime dagli errori»), preferibile sia perché gode dell’appoggio dei testimoni più autorevoli di tutte le famiglie (
rivocarebe V8914 <
xx;
rivogherebbe B4041 <
yy;
riuocherebbe Mg
14 V
6 <
zz), sia perché meglio atta a fornire una spiegazione eziologica del comportamento della tradizione. Con lo stesso criterio si opera, nel contesto ancora più soggetto a perturbamenti di natura poligenetica, dell’alternativa
e /
o al v. 6. Si accoglie la forma copulativa della congiunzione ancora una volta con l’appoggio, sia pur in questo caso meno concorde, della maggioranza (V8914 V
6 Ox
12 Mg
14 contro B4051) e in ragione della possibilità che l’introduzione della forma avversativa sia dovuta all’anticipazione della compagine retorica dei due versi successivi.
La paternità del testo, dal Flamini (
Poesia toscana, p. 709) e da Lanza (
Lirici toscani, II, p. 245) assegnata a Nanni Pegolotti contro i precedenti editori Carbone, Ferrato e Solerti, che l’assegnarono al Petrarca, sul fondamento del più basso ramo di
xx (risalendo ai piani più alti vige l’adespotia), va decisa in favore di Carlo Marsuppini. Dell’alternativa tra le due attribuzioni, nettamente contrapposte tra il ramo
yy (B4051
yy1: Mg
26 yy2: Mg
19 C
8), che l’assegna al più prolifico rimatore, e
zz (Mg
14 V
6 Ox
12), che la riporta a un Carlo d’Arezzo (V
6:
Messer carlo dareço; Ox
12:
karoli aretini) – il quale, dati i testi circonvicini (due sonetti del Salutati seguiti
Rvf 126 da una parte e due sonetti mandati «a Cosmo de’ Medici per la sua tornata, da una donna da Siena») va necessariamente identificato col celebre umanista dell’
Oratio de hominis dignitate –, la seconda spiega più facilmente come l’attribuzione petrarchesca possa essere sorta nella famiglia
xx, nella quale il componimento si presenta anepigrafo, eccetto che nel basso rappresentante 1532
Fau e nel codice beccadelliano Bo
1(2) (dove l’attribuzione, collocandosi entro un’ampia silloge di «disperse», è implicita): da una rubrica compendiaria del nome come
k./
c. Aretini/
d’Arezzo si può infatti meccanicamente essere prodotta la già di per sé
facilior attribuzione al più celebre Francesco d’Arezzo. Contro la paternità del Pegolotti, d’altra parte, milita l’assenza del testo, di tradizione troppo consistente per essere considerato raro, dal più cospicuo collettore della sua rimeria, Mr155. Per contro, l’attribuzione al Marsuppini (diffusamente noto come
Carolus Aretinus nella tradizione della sua opera latina), emerge in un testimone ben informato sull’ambiente poetico gravitante attorno a Cosimo il Vecchio quale è V
6: le risultanze dello stemma, i dati complessivi della storia della tradizione dei testi del Pegolotti e l’inaudita individuazione del Marsuppini come poeta volgare sono elementi sufficienti a ritenere questa attribuzione come la più affidabile.