*07 [Federigo di Geri d'Arezzo]

    come el poverel va per le scale

la vita sua domandando per Dio,

così piangendo e pregando vo io

domandando merzé al mio gran male,


   però ch'una leggiadra micidiale,

ch'Amor vagheggia e tien per suo disio,

m'ha fitto per lo petto nel cuor mio

una spina che punge più che strale.


   Più e più son color che m'han voluto

sanar la piagae questo non mi giova

che forza d'erba non mi può far prova;


   ond'io che per udir v'ho conosciuto

cotal qual io volea per confortarmi,

vi prego e cheggio che vi piaccia atarmi.


Testimoni:
LR2, f. 147v: Sonetto di federigho detto [la rubrica generale federigho di mess(er) geri darezo]; C4, f. 394r: Sonetto; R88, f. 64v (descripti di R88 i mss. della Biblioteca Statale di Lucca, 1486 (Möucke 1), p. 21r e 1493 (Möucke 9), p. 186).

Bibliografia: Mazzoni, Rime Domenico da Monticchiello, p. 32.

L’unica attribuzione esplicita per il sonetto è quella di LR2 a Federico di Geri, mentre la paternità di Domenico da Monticchiello, vulgata dal Crescimbeni in poi col tramite dell’edizione di Guido Mazzoni (Rime Domenico da Monticchiello; l’editore non conosce per il nostro sonetto la testimonianza di LR2), si fonda sulla contiguità della poesia, adespota, a un’altra, il sonetto Cresciuto à Giove con sua sottil arte a f. 393v, regolarmente rubricata a favore di Domenico in C4; il caso era citato da Barbi per evidenziare l’utilizzo sciatto e distratto del Chigiano, già di per sé poco accurato. Nello specifico si vedrà come l’analisi induce almeno a dubitare dell’attendibilità dello stesso Laurenziano. Al di là del contenuto amoroso le referenze petrarchesche si riducono qui a reperti capziosi: ad esempio si può riconoscere nello stato esistenziale preso a riferimento nei primi versi un’analogia con l’incipit di Rvf 16, sottolineata dal riscontro della collocazione nell’endecasillabo, di poverel e vecchierel, nella medesima funzione identitaria dell’inquieto amante; il lessico petrarchesco si ritrova sì nelle immagini tra loro isolate dello ‘strale d’Amore’ Rvf 87 11, 133 7, 241 4 e delle sue spine 214 23, ma la metafora qui procede per accumulo ai vv. 7-8 e trova una corrispondenza, pur semplificata, nel testo para-dantesco «De’ tuoi begli occhi un molto acuto strale / m’è nel cor fitto…», e al Dante petroso (Così nel mio parlar, 58: «questa scherana micidiale a latra») rimanda micidiale, qui arditamente ossimorico. La dissonanza rispetto alla ‘poetica’ dell’autore indicato da LR2 potrebbe essere tuttavia riassorbita con qualche forzatura in un dilettantismo ambivalente, ma la chiara ascendenza ovidiana dell’espressione di v. 11 viene ancora a contrastare il dato paratestuale, addirittura riproponendo come possibile l’accantonata alternativa di Domenico da Monticchiello. A monte di che forza d’erba non mi può far prova si riconosce Heroides V, 149: «me miseram, quod amor non est medicabilis herbis», dopo che Enone aveva esposto a Paride la sua scienza ricevuta direttamente da Febo; nel luogo il volgarizzamento del ms. Gaddi71 della Biblioteca Laurenziana così restituisce il testo: «Lassa, a questo non mi può erba valere né forza di radice»; la traduzione del Ceffi è più stringata: «Ah lassa,…e non mi vale herba né radice che tu lealmente me ami» (Zaggia, Heroides, I, p. 470, par. 150); su quest’ultimo testo è modellato quello in rima di Domenico da Monticchiello: «E non mi vale erba né radice / che ttu me voglia amar perfettamente» (dal ms. Riccardiano 1577 controllato sul Riccardiano1582). Il verso del sonetto si prende qualche libertà anche rispetto al testo del manoscritto Gaddi a cui pare più affine, ma forza d’erba si riscontra in un altro passo della traduzione ceffiana, Ep. 6a Ipsifile a Giasone: «imperciò che vie meglio s’acquista il consolativo amore per piacevole bellezza che per forza d’erbe» (Zaggia, Heroides, I, p. 477, par. 94). L’affermazione è topica e la ritroviamo anche nell’epistola metrica di Federico di Geri dove si dice che la ferita sanguinante (crudum ulcus) non è curabile (quod nulla satis medicamina cure[n]t), ma lo stilema identificato, del quale non risulta una grande affermazione (il passo è echeggiato da Franco Sacchetti, Quanto più penso al tempo mio passato, 63-64: «tanto che virtù d’erbe / né forza non mi può valer…»), costituisce un elemento interno di qualche rilievo in quanto presuppone puntuale familiarità con la resa volgare del testo di Ovidio che va riconosciuta al versificatore della prosa di Filippo Ceffi. Argomento certo non decisivo ma che consente di non rinnegare l’ordine del Chigiano e che, insieme agli argomenti interni, negativi per Federico alla luce dei pur ridotti elementi stilistici ricostruiti sui sonetti con qualche ragione a lui ascritti, mette in crisi la rubrica di LR2: a monte le imperscrutabili (particolarmente tali per gli autori di poche rime) ragioni di aggregazione dei materiali dalle fonti, peraltro comuni. L’episodio, benché limitato, si riverbera dunque sul confronto delle due grandi raccolte manoscritte, per la cui attendibilità per le attribuzioni varrà l’analisi caso per caso non l’appello a un giudizio generale, foss’anche di un grande filologo.
Non ci sono problemi nella ricostruzione del testo in presenza di un testimone quasi impeccabile come qui R88; da notare come C4 e LR2 cadano rispettivamente ai versi 2 e 4 nello stesso errore in presenza di una forma compendiata.
1 poverel] pouerello LR2
2 domandando] domando C4
4 domandando] domando LR2
8 più che strale] piu strale
12 conosciuto] sconosciuto C4
14 vi prego e cheggio] vi pregho cheggio R88