Testimoni:
R156, f. 58r: Sonetto del sopra detto [= Francesco Petrarca]
Bibliografia: Solerti,
Disperse, p. 243.
Schema metrico: sonetto ABBA ABBA CDE EDC
Il sonetto, a tradizione unica, è tramandato in modo pressoché ineccepibile da R156. Si richiede infatti solo l’uniformazione di
guerine >
guerire per necessità di rima (:
languire), ma sembra evidente, che più che di vero e proprio errore, si tratti di un inciampo della penna nell’esecuzione della lettera (il fatto non è segnalato dal Solerti).
Data la qualità del testimone la lezione differisce dal testo del Solerti solo nella punteggiatura, nei criterî di resa del testimone base e per alcune piccole inavvertenze del precedente editore: ai vv. 4, 6 le preposizioni
nello e
alla si leggono nel manoscritto in forma sintetica (ma
ne lo;
a la Solerti); al v. 11 si mantiene la preposizione
del (
dal Solerti), che com’è noto ammette l’espressione del moto da luogo, richiesta dal contesto; nello stesso verso va conservata la forma d’influsso francese (Rohlfs, I, §129)
guerire.
Qualche difficoltà crea l’ultima terzina, per la quale sembra il caso di accogliere la lettura di
ne del testimone come negazione (
né) proposta da Solerti. Il costrutto, con forte anastrofe, prevede che
faccia sofferire regga insieme
tanto languire e
tanto dolore, coordinando i due membri a una sola congiunzione negativa (
però la priega che tanto languire né tanto dolore faccia sofferir). In alternativa si potrebbe pensare di correggere
ne >
no: in questo caso il poeta chiederebbe che la sua malattia d’amore (
languire) non provochi dolore eccessivo al suo cuore già consumato. Questa seconda interpretazione, oltreché un po’ più ridondante, sembra tuttavia meno convincente anche in relazione al contesto, dato che ai versi precedenti il poeta auspica che la preghiera a madonna possa servire non a sopportare la malattia, ma a guarirlo. L’anastrofe e il costrutto, dunque, destano qualche sospetto, ma potendosi ricavare un senso perfettamente aderente al contesto sembra il caso di mantenersi fedeli al testimone unico e alla sua dignità di possibile documento linguistico di un uso raro e poetico della negazione.
Il testo sviluppa il
topos del poeta che si rivolge al proprio sonetto perché trovi l’amata e la preghi di mostrare pietà verso di lui; il tema è già frequentato da Chiaro Davanzati,
Rime 22,
Va’, mio sonetto, e ssai con cui ragiona?, ma il genere gode di una certa fortuna anche per tutto il Trecento: in particolare si nota qualche affinità verbale con quello caudato di
Antonio Pucci, Rime, 22 (v. 8 «umilemente cheto a’ piè le sta»; vv. 13-14 «di’ che da parte d’uomo tu sia mosso | el qual per lei si crede consumare»), rimatore che è anche affezionato cultore di questa tipologia tematica (cfr.
Rime, 26 e 30).
Per quanto di fattura non indegna, la collocazione del testo (non attestato altrove, come si è detto) in coda a un’esile silloge di rime dei
Fragmenta (
Rvf 27, 24, 31-33, 25) e prima di una silloge dantesca, suscita il sospetto che si tratti di un’inopportuna estensione dell’attribuzione petrarchesca a un sonetto originariamente adespoto, secondo una fenomenologia ben nota. Lo schema metrico è tra quelli meno praticati dal Petrarca, che se ne servì per il solo
Rvf 93.