Testimoni:
ζ
LR2, f. 92va: Sonetto [attribuzione collettiva a f. 90va: Seghueno anchora canzoni esonettj | di mess(er) franciescho petraccha];
Mg5, f. 28r: petrarcha.
Bibliografia: Solerti,
Disperse, p. 234; Di Benedetto,
Col Petrarca minore (1949), pp. 68, 75.
Schema metrico: sonetto ABBA ABBA CDE CDE
Il sonetto è tramandato alla coppia LR
2 Mg
5, congiunta dall’errore 8
esc(h)a. Anche la lezione 5
(s)apre condivisa dai due testimoni, dovendo reggere al v. 7
andar (
sovr’esse, cioè ʻsopra le pianteʼ, v. 2), non può essere accolta, e andrà dunque annoverata tra gli errori congiuntivi della tradizione (
ζ). Una serie di luoghi in cui s’impone il ricorso a congetture abbastanza economiche per raddrizzare l’ingarbugliata sintassi del testo, e che si analizzeranno di seguito, riconoscendo in tali lezioni guasti caratteristici della fonte comune, offrono altri indizî probabili della stretta affinità del testimoniale.
Le proposte di Di Benedetto per questo sonetto sono particolarmente acute (né lui né il Solerti conoscono però la testimonianza del codice di Lorenzo Strozzi): per il già ricordato v. 7, lo studioso propone
pare, ottimo per salvare la sintassi; per maggiore aderenza al materiale verbale del testimone prescelto (LR
2) sembra però meglio restituire
si pare, considerando
talora una scrizione soprannumeraria (d’altra parte
Talhor è in Mg
5). Utile sembra pure accogliere 4
fan, che eviterebbe sia l’anacoluto che si produrrebbe altrimenti nei vv. 1-4 (
Nel prato… dove le piante verzicanti… par sempre una novella primavera), sia la ripetizione del verbo ʻparereʼ, che al v. 4 e 8 assume il medesimo significato di ʻsembrareʼ, a differenza che per il v. 5, dove vale ʻsi manifestaʼ, ʻsi mostraʼ: la forte somiglianza nella consistenza fonica tra le due voci verbali e la ripetizione dello stesso verbo pochi versi più avanti, giustificano sufficientemente l’eziologia dell’innovazione. Resta invece la problematica triplice ripetizione dell’aggettivo
novella / -
e nel giro di tre versi consecutivi (3-5), che si è incerti se ritenere frutto di un incondito esercizio poetico o se accidente meccanico (caso nel quale si avrebbe un’ulteriore conferma della stretta relazione tra i testimoni); sarebbe forse troppo pensare al
senhal di una Novella; si noti che il fenomeno si presenta però già in due versi consecutivi (1-2) col trito aggettivo
bella / -
e; non va dunque del tutto escluso il vezzo (o a l’imperizia) d’autore.
Tra le proposte di Di Benedetto non convince invece 5
Espera che identificherebbe la protagonista della visione con una ninfa («è la Ninfa Esperia di cui al v. 161 del 2° capitolo del
Trionfo d’Amore»): l’intero contesto sembra giocarsi sulla luminosità prodotta proprio da una ʻstellaʼ (
spera, cfr.
GDLI, s.v. ʻSpera
1ʼ, 1) e sulla trasfigurazione che il suo passaggio provoca, trasformando il placido quadretto silvestre in un’immagine celestiale (v. 8
par esta selva una celeste schera): d’altra parte la necessità di distogliere lo sguardo da madonna (v. 9), si addice meglio alla raffigurazione in forma di corpo celeste, piuttosto che a una donna rappresentata come ninfa (che lo sguardo non riesca a reggere la vista della donna, anziché del panorama illuminato, lo suggeriscono i versi immediatamente successivi, 10-11
e ’l duro core |
riman co⸱ lei, che l’ha presa per duce). D’altra parte Di Benedetto salvava nel suo testo la lezione banalizzante di Mg
5 gemmata aggiungendo del suo per salvare l’endecasillabo (
ingemmata). Molto più apprezzabile la qualità della lezione di LR
2 gierminata, che permette di congetturare
geminata, cioè ʻposta in congiunzione con un altro corpo celesteʼ (
TLIO, s.v. ʻgeminatoʼ, 3, cfr.
Cecco d’Ascoli, Acerba, L. 2, cap. 2, 833 «Sette ricetti per ciascun pianeta | son nella madre, però sette nati | nascere posson, come vidi a Leta. | Questo adivenne per lo molto seme | ed anche per i segni
geminati | quando li lumi s’accinvono insieme»): l’amata è dunque descritta come un astro in cui la chioma si paragona alla coda di una cometa, e gli occhi a due stelle poste in congiunzione nel suo viso.
Cercando di mantenere un approccio conservativo, Solerti non ha rinunciato qualche congettura che non sembra il caso di riproporre a testo. Al v. 8 ha provato a salvare l’errore
esca leggendo
salva in luogo di
selva (
per le cui fiammelle |
par esca salva una celeste schiera): ne risulta un’immagine senz’altro più stentata e che perde un po’ troppo il suo legame con il contesto descrittivo. I vv. 10-11 sono stati rielaborati con eccessivo coraggio, ritenendo che il
duro core fosse attributo da riportare meglio all’amata che non all’amante (complice anche l’errata lettura di
riman con
teman in LR
2, come si deduce dall’apparato):
che ’l duro core |
temon di colei c’han presa per duce. Inammissibile la sostituzione di 2
verzicanti (attestato una cinquantina di volte nel
Corpus OVI) con
vegentanti.
Nessuna delle soluzioni proposte dai due editori per il v. 13 sembra soddisfacente: Solerti interviene in modo più pesante con
Come fa quel che si conduce u’ more; Di Benedetto
com fa qual si conduce ove poi more, che mantiene peraltro l’ipermetria e sostituisce senza necessità il dimostrativo originario. Nella tradizione si oppongono la lezione sospettosamente limpida di Mg
5 (
come chi siconduce oue poi muore), che la presenza di una variante marginale (
Come fa chi sadduce oue poi more) incoraggia a considerare un rimaneggiamento (lo Strozzi potrebbe aver cercato una nuova congettura servendosi del materiale verbale a disposizione nel suo antigrafo, ed è interessante che anche in questa variante si trovi il verbo
fa), e la lezione ipermetra di LR
2 Chome fa quel siconducie ove pomore. La soluzione più economica sembra di dover considerare fa un’inserzione prosastica, volta a chiarire meglio il senso di un originario costrutto con ellissi del complementatore ʻcheʼ:
come quel [che] si conduce ove po’ more. Il paragone con l’uomo condannato al patibolo è ampliato al v. seguente (
ch’agli occhi e’ va com’uom ch’è senza luce), dove
senza luce varrà ʻciecoʼ; (il
GDLI, s.v. ʻLuceʼ, 6 non registra occorrenze prima del sec. XVI, ma cfr. già
Boccaccio, Ninfale, st. 68, 8 «Ma vo errando com’ uom sanza luce»), ma nel significato più specifico di ʻcon lo sguardo spentoʼ, e agli occhi ʻallo sguardo di chi lo osservaʼ (cfr.
f Deca terza di Tito Livio (B, L. I-II), L. 2, cap. 29, p. 69: «acciò il Romano d’alcuna parte non assalisse la schiera inchiusa nelle valli, seco pensò un nuovo giuocho, a vedere terribile agli occhi, ed a potere con esso ingannare il nemico»).
Al v. 9 resta indeciso il valore da attribuire a
via, se cioè esso specifichi l’azione espressa dal verbo ʻvolgereʼ (
volgo… via) o se piuttosto serva a conferire valore durativo (ʻvieppiù lassi di mirareʼ). Sulla scorta della lezione di Mg
5 & il, si può correggere LR
2 il (
duro), con un asindeto un po’ troppo duro, postulando a monte
el (=
e ’l), interpretato dal copista del Rediano come un articolo semplice. Si segnala qui la lieve differenza nel trattamento della rima che si verifica in Mg
5: mentre in questo testimone, al v. 1,
riuera è più aderente al tessuto fonico delle seguenti 4
primavera : 5
spera rispetto a
riuiera di LR
2, per il v. 8 la situazione si capovolge, con l’impiego del dittongo in Mg
5, e la forma monottongata del testimone adottato come testo-base.
Stante la dipendenza dei due latori del testo da un unico antigrafo, l’attribuzione petrarchesca non ha sufficiente credibilità. Seppure non si tratta di elementi dirimenti, vanno ammesse anche scelte poco consone al gusto petrarchesco sul piano retorico – come la ripetizione degli aggettivi
novella / -
e,
bella / -
e nei vv. 1-2 e 3-5 e lo stacco repentino e impacciato del v. 9, introdotto da
poi – e sintattico – come, al v. 11, il che con valore cataforico o di subordinatore generico (cfr. in proposito Dardano, Sintassi, II, p. 699) da riferire a
duro core.