Testimoni:
r
L41.2, f. 47rb: M.F.P. [attribuzione collettiva a f. 47ra];
r*
Am119, f. 122v;
Bc
Bart, M(esser) francescho Petrarcha [attribuzione collettiva];
Bo1(2), f. 52r [attribuzione implicita];
Bo1(5), f. 177v: Petrarca
Bibliografia: Solerti,
Disperse, p. 162; Barber,
Disperse, p. 28; Carbone,
Corona, p. 57; Ferrato,
Raccolta di rime, p. IV; Salvatore,
Le rime disperse, pp. 103-105.
Schema metrico: sonetto ABBA ABBA CDC DCD
L’errore del v. 9
prometeo, da cui deriva il
prometto della tradizione cinquecentesca (corretto nell’interlinea dal Beccadelli senza che il suo intervento sia recepito dagli altri derivati della sua fonte), accomuna sotto
r* Am119 e l’antigrafo della tradizione cinquecentesca (
Bc). Esso sembra spiegabile a partire dall’altrettanto erroneo
Penneio, irricevibile per il senso, dato che questi è il dio fluviale padre di Dafne, che nulla ha a che fare con l’ispirazione poetica apollinea: è chiaro infatti che a
spirare |
del suo valor (vv. 9-10) il poeta deve essere Apollo, che con lui condivide la passione per l’
aloro (v. 2). Si propone dunque di restaurare
Pean, postulando una lettura con sillaba paragogica, frequente per i grecismi nella poesia antica, secondo la fenomenologia individuata da Migliorini,
Un tipo di versi ipometri: già in Dante (
Par. XIII, 25 «Lì si cantò non Bacco, non Peana, ma tre persone in divina natura») e Boccaccio (
Filocolo, L. 1, cap. 29, p. 104: «Avea già, nel brieve giorno, Pean, […] trapassato il meridiano cerchio») la voce è impiegata come appellativo del dio, e una certa circolazione con tale funzione trova conferma anche nella tradizione erudita dei commenti: «[…] et ancora sì l’adora li pagani et appelalo Apolin, dal nome di Apollo, che è un deli secte nomi del sol, li quali se conthien en questi doy versi: Delius et [C]larius, Sol,
Pean, Phebus, Apollo, | Titan: sunt solis hec septem nomina, lector» (
Comm. Arte Am. (D), L. II [vv. 85-88], f. 57r). Postulando una fonte in cui era graficamente espressa la vocale (o la sillaba) epitetica (
pea(n)ne), dopo la caduta di una
a è dunque facile, dato il contesto dafneo, la trafila genealogica
pe(n)ne >
pe(n)neo, il quale sarà da considerarsi errore di
r che L41.2 ha riportato alla forma
penneio. La relazione di collateralità tra Am119 ed L41.2 trova d’altra parte conferma nell’errore caratteristico della tradizione di R328 (SP196), che accomuna i due testimoni appunto entro
r (cfr. già Leporatti,
Sonetti attribuiti a Petrarca, pp. 190-191), e dall’essere unici latori della coppia SP077-R328 (SP196), pur in posizione invertita. Notevole che in entrambi i casi l’archetipo si riconosca a partire dal fraintendimento di un nome mitologico. L’ipotesi alternativa, che
penneio sia lezione originale, dovuta a un equivoco generatosi in un autore poco confidente con l’erudizione classica, il quale avrebbe potuto interpretare sintagmi quali
fronda |
peneia (
Par. I, 33-34) considerando l’aggettivo un sinonimo di ʻapollineo, di Apolloʼ, non gode di una documentazione di supporto, e rappresenta dunque un’alternativa più onerosa (per la dimostrazione di un fraintendimento di questa natura in un testo del
corpus, si ricordi però il caso opposto di SC027b).
L’innovazione 6
tutti i spirti (
sì li mei spirti Am119 L41.2) accomuna i latori cinquecenteschi del testo, confermando l’antigrafo
Bc, già denunciato dal Beccadelli stesso con la solita sigla «A» anteposta al sonetto di Bo
1(2), e verificabile nella simmetrica serie testuale che accomuna Bart Bo
1(2) rispettivamente ai ff. 42r-45v e 80r-88v. All’innovazione del v. 6 va affiancata anche la minore 4
Che ’n ver’ lui (
Che ver’ lui Am119 L41.2). È a questo ultimo ramo della tradizione che si sono affidati i precedenti editori del sonetto.
Non turba, ai vv. 3-4, l’accordo con verbo al singolare del sogg. plurale preposto per
coloro [= i poeti] |
che ver’ lui corse e vòl corere ancora, fenomeno ammesso nella sintassi dell’italiano antico (cfr.
Boccaccio, Ninfale, st. 8, 6 «Dïana tutte con le braccia aperte | le riceveva, pur ch’elle volesse | servar verginità e l’uom fuggire»); mentre al v. 2 è tipica l’identificazione tra Apollo e Iperione (padre dell’Aurora, cfr. Ovid.,
Fas., 5, 159 «Postera cum roseam pulsis
Hyperionis astris | in matutinis lampada tollet equis») per essere entrambe personificazione del sole (si veda il passo citato di
Comm. Arte Am. (D), nel quale «Titan», altro nome con il quale nel Medioevo ci si riferisce a Iperione, che era appunto un titano, è allegato tra i nomi di Apollo).
L’attribuzione al Petrarca è controversa sul piano stemmatico. Colpisce ai piani alti, la sua presenza in L41.2, codice che per un’altra parte della sua appendice di «disperse» è stato dimostrato sicuramente inaffidabile, a causa della preterintenzionalità delle sue ascrizioni all’autore dei
Fragmenta (cfr. Salvatore,
Le rime disperse, pp. 103-105); nei fogli d’interesse, tuttavia, il testimone attinge necessariamente il sonetto da altre fonti, e non può valere quanto notato per la silloge derivata da L41.17. Per contro, l’adespotia del sonetto verificabile in Am119, entro un agglomerato poetico avventizio stratificatosi con l’intervento di più mani, pone ulteriormente in bilico la questione, che tuttavia non può essere chiusa, dato il ritorno dell’assegnazione più nobile (ma anche più facile) nel collaterale
Bc.
Contrastanti anche gli elementi che emergono dalla critica interna: se il verso incipitario sembra implicare un legame diretto con la corrispondenza sennucciana (SC030a, 9 «così son vago della bella Aurora»), presto ridottasi a un ramo non folto, e dunque probabilmente pochissimo diffusa alla fine del Trecento (L41.2 si data al sec. XV in.), e può dunque confortare l’ascrizione petrarchesca, è pur vero che il rapporto di dipendenza potrebbe essere solo apparente, assodato che il sintagma «bella Aurora» è già di
Purg. II, 8, e sussistendo un altro testo con
incipit quasi identico,
Io son sì vago della bella luce, tradizionalmente assegnato a Cino da Pistoia (e da alcuni codici attribuito pure a Dante): la poligenesi non si può insomma escludere
a priori. Difficile, d'altra parte, ammettere in un umanista attrezzato come il Petrarca la confusione tra Apollo, al centro della sua personale mitologia, e il padre mitologico di Aurora: quest’ultimo sembra un argomento decisivo per confutare i dati relativi alla paternità offerti dallo stemma.