Testimoni:
Bo1, ff. 170r-172v: Canzone di m(esser) Fr(ancesc)o Petr(arca)
Bibliografia: Solerti,
Disperse, p. 295; Carbone,
Corona, pp. 15-18; Cipolla-Pellegrini,
Poesie minori, pp. 179-182.
Schema metrico: canzone di 5 stanze ABC ABC C DdEE FfGG; cong. ABC ABC CDdEE
La canzone fa parte del novero degli
unica di Bo
1, contenuta nell’assemblaggio di fogli di varia provenienza e scritti da più mani che costituisce la quarta unità codicologica. La lezione è pressoché perfetta; s’individua un problema soltanto al v. 16
Regno diviso dissolutum este: la sentenza proviene infatti da
Mt 12, 25 «Omne regnum divisum se desolatur», e si trova in formulazione analoga in Bruscaccio da Rovezzano,
Rime, IV, 8 «r<e>gno diviso disolato este» e Franco Sacchetti,
Rime, CCXIX, 125 «ch’ogni regno diviso è disolato». Poiché la massima risulta moneta corrente in autori volgari e la forma
èste (su cui Rohlfs, II, §540) è ben documentata nel
Corpus TLIO (una settantina solo le occorrenze lemmatizzate) è il caso di imputare al copista l’introduzione delle voci latine
regnum e
dissolutum (condizionate da un’errata valutazione della forma verbale del verbo ʻessereʼ), correggendo la seconda in
dissolato. Diversamente da Ruggiero, editore di Bruscaccio da Rovezzano, interpreto dissolato come ʻreso deserto, distruttoʼ, sulla base della fonte evangelica e del contesto (la stessa interpretazione è proposta da Puccini nel suo commento al Sacchetti
ad loc., ma senza individuare la fonte implicata: «disolato: destinato alla rovina»; la Ageno non chiosa il verso).
Al v. 8 la presenza di un calco dantesco (
Purg. VI, 99 «O Alberto tedesco ch’abbandoni | costei ch’è fatta indomita e selvaggia, |
e dovresti inforcar li suoi arcioni») e la situazione contestuale permettono di correggere la lezione
Quando devreste rinforzar gli arzoni con
rinforcar (facile lo scambio da un precedente
rinforçar), ʻstringere di nuovo tra le gambe la sella di una cavalcaturaʼ (cfr.
GDLI, s.v., con esempî non antecedenti al Seicento): la coincidenza con l’ipotesto dantesco e il più ovvio sviluppo dinamico che si instaura con il verso seguente,
et punger con gli sproni, sono infatti sufficienti a legittimare l’
emendatio ex fonte (la rarità del verbo, assente dal
Corpus OVI, permette di considerare banalizzante l’innovazione di Bo
1): metaforicamente la locuzione varrà ʻaffrettarsi ai preparativi di guerraʼ (ignota ai repertorî, cfr.
TLIO, s.v. ʻarcioneʼ;
GDLI, s.v. ʻArcione
1ʼ, 2).
Altra notevole occorrenza lessicografica si registra al v. 4, con ʻdiscemareʼ, che nel
TLIO conta su una sola attestazione di
Tommaso di Giunta, Disperse, 2, 14, ma nel significato secondario di ʻrendere più sopportabileʼ; qui ha quello di ʻaffievolireʼ e dunque ʻindebolireʼ (registrato anche nel
GDLI, ma con occorrenze non anteriori al secolo XVI).
Corpora e vocabolarî non registrano attestazioni della locuzione del v. 27 ʻtirare ad unaʼ, che sembra interpretabile come ʻagire con concordiaʼ: il riferimento proverbiale potrebbe essere al gioco del tiro della fune (al quale si ispirano molti altri usi proverbiali del verbo ʻtirareʼ). Poco oltre, al v. 29, come adivenne non va riferito all’apologo narrato nei versi successivi, ma all’opinione dell’autore che ammonisce i destinatarî dei rischi che corrono se alimenteranno ancora le divisioni di parte (l’espressione va dunque resa come ʻil motivo, il perché (di ciò che ho detto)ʼ).
La canzone, evidentemente opera di un autore fiorentino (v. 81
ma vederai la mia
Fiorenza prima), è strutturata come un testo parenetico rivolto ai reggitori del comune di Bologna perché si uniscano a Firenze nel contrastare Giangaleazzo Visconti (
la velenosa Biscia, v. 19). Il contesto si chiarisce grazie ai fatti storici sottintesi dall’apologo dei vv. 30-65, che per esplicita dichiarazione dell’autore allude alla lega stretta tra Giangaleazzo e Francesco il Vecchio da Carrara, signore di Padova, che portò alla fine della dinastia Scaligera a Verona (17 ottobre 1387). Dopo la deposizione di Antonio della Scala, il Conte di Virtù s’impadronì però tempestivamente di Verona e di Vicenza, anticipando le richieste dei Carraresi, che divenutigli apertamente ostili, offrirono al signore di Milano un pretesto per allearsi con Venezia ed erodere, tra il 1388 e il 1389, il dominio dei da Carrara su Padova e le terre a lei soggette (vv. 70-73
sì come la possanza Padoana, |
condusse a destruttion del Veronese, |
poi fé le parti et prese |
come sapete).
Due sono state le proposte di datazione per questo testo. La seconda, quella di Cipolla-Pellegrini,
Poesie minori, che riporta la canzone dubitativamente al 1387, non è molto persuasiva, perché, se la guerra contro gli Scaligeri è di quell’anno, il contrasto con i Carraresi si intensifica solo nel biennio successivo, ponendo fine alla dinastia non prima del 1389: è il riferimento alle vicende di Padova che deve dunque necessariamente valere come
terminus post quem.
I due studiosi hanno però ignorato l’esistenza di una precedente edizione in Carbone,
Rime, pp. 18-20, nella quale si argomenta una diversa proposta di datazione, sostanzialmente corretta, al primo semestre del 1390. Secondo Carbone, i vv. 18-20 (
Se nel gelato tempo v’ha trafitti |
la velenosa Biscia con moleste |
hor che fia quando il sol in Tauro lede?) alluderebbero infatti ai preparativi di guerra che in quei mesi il Visconti intentava contro Bologna, fomentando contro di loro i confinanti marchesi di Ferrara e Mantova. L’allusione al
gelato tempo e alla ʻtrafitturaʼ della
Biscia trova tuttavia più precisa correlazione nella congiura di Marchionne Saliceti, Alberto Galluzzi e Giovanni Isolani, che cercarono di consegnare la città al signore di Milano, venendo scoperti e giustiziati il 7 dicembre 1389 (la congiura sventata, corrisponderebbe dunque alla ʻtrafitturaʼ, e il periodo al
gelato tempo). Poiché gli eventi bellici di maggio (
quando il Tauro lede) non sono ancora allusi come compiuti, ma solo come un’eventualità (
hor che fia…?), è chiaro che il testo deve risalire proprio all’inverno del 1390, quando Bologna era ancora collegata a Milano tramite la lega di Pisa (avviata il 10 ottobre 1389). Il fatto che proprio alla fine del 1389 fosse in corso una vana trattativa diplomatica tra Bologna e Firenze per portare dalla propria parte Carlo VI, spiega d’altronde l’allusione alla Francia dei vv. 21-24 (
Se non havete voi a voi mercede |
ogni altro aviso mi par una ciancia, |
se venisse di Francia |
l’armata che de’ Greci venne a Troia).
Si segnalano due costruzioni sintattiche appositive che per l’inversione dell’ordine sintattico
standard possono suscitare qualche dubbio: al v. 5
d’ogni felice stato è specificazione di
la nimica, e sottintende, come si dichiara al v. 19, la «Biscia» viscontea (ʻla nemica d’ogni felice stato ha preso l’armeʼ); al v. 14
scellerati regge
per vostra divisione (ʻscellerati a causa della vostra divisioneʼ).
Non ignoto l’apologo contenuto nei vv. 30-65, che rielabora con alcune variazioni la favola esopica della guerra tra i lupi, le pecore e i cani (Chambry,
Aesopi fabulae, 216), diffusa anche nell’Occidente medievale, attraverso il
Romulus e le sue successive redazioni (
Romulae fabulae, L, in
Fabulistes latins, II, pp. 323-324): nel racconto originale i cani, collegati delle pecore, venivano ingannati con lo stratagemma ricordato nella canzone; soppressi i cani, i lupi facevano strame anche delle pecore.
Ai vv. 10-11 s’interpreta
la semenza |
per cui morì quel nobile Catone come la
libertas, virtù proverbiale dell’Uticense (del quale per
captatio benevolentiae i Bolognesi sono considerati, sul piano morale, progenie) e fulcro ideologico degli scambî diplomatici tra le cancellerie delle rispettive città (allora guidate da Coluccio Salutati e Pellegrino Zambeccari) nei giorni del conflitto: essa è definita perciò metaforicamente come
caro confalone (v. 12), cioè come amata idea che li guida, ed esplicitamente richiamata nei versi finali (vv. 83-85
et dirai lor palese |
che libertà non trova più ricorso |
se per discordia perde il lor soccorso).
Sul piano metrico si segnala che al v. 4 si può preservare il ritmo
a maiore dell’endecasillabo individuando un
ictus su
qui; al v. 75 si introduce dieresi su
saï, per garantire la maggiore fedeltà possibile al testimone base, ma va tuttavia rilevato che una soluzione altrimenti equipollente sarebbe quella di restaurare la terza sillaba di
Canzon (>
Canzone), ponendo l’accento, in 6
a sede, su
tu, tipologia infrequente ma ammissibile (Beltrami,
Incertezze). Unico esempio nel
RICABIM e in Pelosi,
La canzone, lo schema metrico (dal quale si evince la caduta del v. 48, già riconosciuta nelle edizioni precedenti), ricorda da vicino quello di due canzoni politiche (CXLIX
Credi tu sempre, maladetta serpe; CCXIX
In ogni parte dove virtù manca) di Franco Sacchetti, che Carbone, per il tema, ritenne possibile autore del testo: ABC ABC C DDEeFf GG (si tratta comunque di una variante della fortunata dubbia ciniana
Nel tempo de la mia novella etate: ABC ABC c DdEe FfGG). La prima di queste è per giunta una canzone antiviscontea, ma scritta in tutt’altro frangente (1371). Più che azzardare l’attribuzione all’autore del
Trecentonovelle si può pensare a un fiorentino che conosca la prima canzone sacchettiana e ne recuperi la lezione. Da escludere categoricamente la paternità petrarchesca, come capirono già Carbone e Cipolla-Pellegrini: gli eventi su cui la canzone si incentra sono infatti posteriori alla morte del poeta.