Testimoni:
AD4, ff. 71v-72r: Sonetto fatto p(er)mess(er) fra(n)c(esc)o [marg.: N° 30]
Bibliografia: Pasquini, Codice Scarlatti, pp. 466-467.
Schema metrico: sonetto caudato ABBA ABBA CDC DCD dEE
Tràdito tra gli unica attribuiti al Petrarca dal codice di Filippo Scarlatti, il testo richiede all’editore, per lo più, minimi aggiustamenti, quali la correzione di un
lapsus calami al v. 8 con
tel evidentemente per
tal, e qualche ritocco nella divisione o nella trascrizione di alcuni lemmi: al v. 3
une ⸱ s, richiede di redistribuire il materiale grafico trascrivendo
un’ES; al v. 11 si rende l’abbreviatura
s(an)c(t)a, con il corrispondente volgare, come consiglia la rima. Data, infine, l’inammissibilità etimologica di una dieresi su
rjljeua, va corretto 13
lel in
l’ELLE, sorto probabilmente per simmetria alla
scriptio di 11
les (
l’ES). Non è da escludere tuttavia, anche per le medesime ragioni di simmetria, che pure quest’ultima andasse letta con una vocale d’appoggio e geminata (
ESSE); non si dispone però di dati prosodici tali da accertare la necessità della correzione. La questione rientra comunque nell’ambito degli endecasillabi ipometri apparenti studiata da Migliorini,
Un tipo di verso ipometro.
Un problema più arduo pone l’impossibilità, almeno a partire dal testo tràdito, di individuare la figura celata sotto le quattro letter di cui l’autore si dichiara innamorato, tale da far sospettare fortemente che il testo sia corrotto. Il sonetto sviluppa infatti il
topos della
laudatio nominis, che istituzionalmente prevede l’attribuzione di virtù intrinseche alle lettere dell’alfabeto o alle sillabe (o a parte delle une o delle altre) che compongono il nome della persona oggetto dell’encomio. Tre ordini di problemi suscitano diffidenza verso il testo tràdito: in primo luogo, la forma
ZI, per ʻzetaʼ, non sembra poggiare su ulteriori attestazioni; in secondo luogo, a fronte di un encomio costruito con una faciloneria un po’ scanzonata (10: la ʻaʼ prima lettera dell’alfabeto; 11: la ʻsʼ precede il nome di tutti i santi e le sante; 13: la ʻLʼ indica il numero ʻcinquantaʼ), non sarebbe possibile fornire spiegazioni plausibili per l’astrusa affermazione del v. 12
Lzi⸱ eprjncjpjo dognjn b(re)ujatura; infine, ed è l’argomento più pesante, sarebbe impossibile comporre un nome con le lettere fornite dal versificatore (
a,
z,
l,
s).
Si può tuttavia proporre una correzione poco invasiva, postulando lo scambio di una ʻzʼ (specie se si immagina a monte la stessa varietà grafica caudata del testimone unico), con una ʻyʼ. La soluzione non è soltanto economica, ma permette di risolvere tutti i problemi del testo tràdito che si sono rilevati.
Partendo dal secondo (sul primo, che ne apre altri, bisognerà dire a parte), la correzione permette infatti di spiegare il senso del v. 12 (
l’Y è principio d’ogni ’nbreviatura) richiamando l’uso dei notai di iniziare i proprî documenti, ovvero ʻimbreviatureʼ (
TLIO, s.v.), secondo il precetto paolino (
Col. 3, 16 «omne, quodcumque facitis in verbo aut in opere, omnia in nomine Domini Iesu gratias agentes Deo Patri per ipsum»), tramite l’
invocatio verbale o simbolica della divinità, la quale poteva essere ridotta appunto alla sola «Y», iniziale di «Yesus» o «Yesu». Le lettere così ricostruite permettono d’altra parte (e si risolve così il terzo problema posto dal testo consegnatoci dallo Scarlatti) di ricomporre il comunissimo antroponimo femminile «Lisa», secondo due accoppiamenti strutturati in modo simmetrico: 1. enunciando in coppia le vocali e poi le consonanti del nome, sempre a partire dall’ultima (v. 3:
a-
y,
s-
l); 2. enunciando in coppia la vocale e la consonante che compongono le rispettive sillabe del nome, a partire di nuovo dalle ultime, ancora attribuendo alle vocali una preminenza gerarchica (vv. 10-13:
a-
s;
y-
l).
Si può ora tornare al principio e riproporre la prima questione problematica, quella relativa alla lettura del grafema. Anticamente, la lettera che oggi viene chiamata grecamente ʻipsilonʼ, era designata col nome di ʻfioʼ (cfr.
TLIO, s.v. ʻfio (2)ʼ;
GDLI, s.v. ʻFio2ʼ), e ci si potrebbe chiedere se, traslitterando, non sia il caso di restaurare questo lessema (che gode di una certa diffusione paremiografica) a testo. Tuttavia, dal fatto che al v. 12 lo Scarlatti abbia prima trascritto
Lj e poi corretto sovrascrivendo
Lzj, risulta evidente che l’autore aveva preferito giocare con l’alternanza puramente grafica di <i> e <y>, talché, è assolutamente indecidibile se porre a testo
I, dando maggiore rilievo al nome che si dovrebbe ricostruire (la grafia «Lysa» non risulta infatti attestata), oppure
Y, privilegiando il dato culturale relativo alla tradizione notarile: con ineliminabile arbitrio, si sta per questa seconda opzione, anche perché, per il v. 12, più aderente al significato letterale del testo, di evidenza oggettivamente meno scontata. Va notata in ogni caso la necessaria dialefe d’eccezione tra
Y ed
è.
Si noti, in chiusura, che la correzione dello Scarlatti che si è segnalata, contribuisce a confermare la ricostruzione proposta: è infatti evidente che la scriptio prior recava la lezione buona ancora tramandata dalla fonte, e che il verseggiatore intervenne maldestramente, emendando sulla scorta di quanto leggeva scritto al v. 3, anziché ricostruendo il senso del testo. Incongruenza della inattestata forma zi e dell’articolo che l’accompagna (
’l zi) a inizio di verso sono ulteriori elementi per dare all’indizio statuto di certezza.
È notevole, nel testo, l’uso del raro participio tapinato, ʻtribolatoʼ (cfr.
GDLI, s.v. 1), che anche dal
Corpus OVI risulta attestato solo nella letteratura laudistica (
Ritmo di S. Alessio, 243;
Bianco da Siena, 28, 42; a cui il
GDLI aggiunge un’occorrenza del
Laudario della Compagnia di San Gilio) e il particolare rapporto istituito tra sintassi e struttura metrica, ove il periodo tende superare le misure canoniche della fronte, per trovare la sua conclusione nel verso iniziale dell’unità metrica seguente, sia essa quartina o terzina (vv. 5, 9). Tra le forme, è da rilevare 8
lusce, che rispecchia la pronuncia fiorentina assibilata della palatale.