Testimoni:
As1378, f. 13r-v; R939, f. 102vb Sonetti fatti p(er) mes(ser) francescho petrarcha poeta fiorentino [attribuzione collettiva, f. 101ra]
Bibliografia: Debenedetti, Per le disperse, pp. 99-100.
Schema metrico: sonetto ABBA ABBA CDE DCE.
La tradizione del testo si riduce a due soli testimoni, R939, nel quale si trova deturpato da una lacuna al v. 7 e da un’altra parziale al v. 2, e As1378: solo del primo è l’attribuzione petrarchesca, resa esplicita dall’inserimento del sonetto in una silloge dichiaratamente monografica, ove funge da nodo di raccordo tra le rime del Canzoniere
Rvf 2, 112, 150 trascritte a f. 102rb e le «disperse»
L’alpestri selve, di candide spoglie e
Fra’ verdi boschi, ove l’erbetta bagna a f. 102va; l’Ashburnhamiano presenta invece il testo adespoto. Nessuno dei due è complessivamente migliore dell’altro sul piano sostanziale, giacché, se nelle quartine As1378 è certamente più affidabile, la lezione delle terzine si dimostra meglio conservata in R939. La scelta del testo base, più che su una valutazione di correttezza sostanziale, si fonderà dunque sulla maggiore completezza e sulla caratterizzazione linguistica testimone prescelto: stante il fatto che la rima sopre (v. 4), non estranea al Petrarca (se ne registra infatti un’attestazione in
Tr. Fame, II 37, «Phocïone va con questi tre di sopre» :
scopre :
opre), si giustifica meglio in un autore non toscano, pur con molte incertezze sulla collocazione geografica del sonetto, sembra preferibile assecondare il colorito linguistico dell’emiliano As1378 (elemento che potrebbe suggerire, seppur non necessariamente, la provenienza settentrionale dell’autore), contro il fiorentino R939. È probabile che quest’ultimo trascrivesse frettolosamente da una carta vergata con un’impaginazione poco chiara, vista la trasposizione dei vv. 4-5 e 10-11 che in esso si verifica e che avrebbe potuto portare all’anticipazione del v. 12 in decima sede, se il copista non se ne fosse accorto per tempo, depennando le prime parole del verso anticipato.
Un po’ ostica la situazione dei vv. 4-5, anche per la defezione di R939, che ha lasciato uno spazio bianco in corrispondenza del primo di questi: non si può escludere che, così come la lezione viene tramandata dal testimone laurenziano, essa possa essere frutto di un guasto, o che il testimone, con i pochi elementi verbali a disposizione, abbia rielaborato alla bell’e meglio un antigrafo illeggibile (come si potrebbe supporre sulla base del comportamento del Riccardiano), dove 6
asconde sarebbe stato seguito al verso successivo da un oggetto diretto, a sua volta antecedente del relativo del v. 7.
È pur vero, tuttavia, che nel testo tràdito è ammissibile la contrapposizione tra la lode di ciò che vela le grazie dell’amata (1
velo; 3
laccio; 5
drappo; 9
lecto), salvando l’amante da un desiderio lacerante che, alimentato dalla loro vista, lo annienterebbe, e, all’opposto, l’odio espresso per ciò che le svela. La lezione di As1378 4
ma l’acqua odio che ’l viso te ’nfonde potrebbe dunque giustificarsi considerando l’acqua come un elemento che, aspergendo il volto (per questo valore di ʻinfondereʼ, cfr.
GDLI, s.v. 2), ne renderebbe visibile la pelle o l’incarnato. Ancora, l’odio espresso verso l’acqua potrebbe fare riferimento al necessario denudamento che il gesto dell’abluzione implica. In entrambi i casi il suo uso rappresenterebbe un fattore di turbamento. Resta qualche dubbio per il collegamento sintattico un po’ lasco col verso seguente (
ch’à facto agli ochi far tante malopre), dove il relativo andrà riferito a
viso, cui andrà attribuita la responsabilità delle
malopre compiute dagli occhi, eppure così interpretati, se i due versi risultano forse un po’ fiacchi, essi sembrano però salvabili. La scelta di riconoscere una sua dignità alla tradizione, pare quella più cauta.
Si noti che non sembra il caso di spiegare la lacuna del Riccardiano con difficoltà interpretative, quanto piuttosto con problemi di lettura della fonte dovute probabilmente a un guasto materiale, se il secondo emistichio del v. 2, come si è accennato, è anch’esso tralasciato con uno spazio bianco. In tale sede è possibile conservare l’imperfetto
vedea di As1378, dato che non necessariamente l’uso di questo tempo verbale deve implicare che i capelli della donna abbiano perso lo splendore d’un tempo, e che dunque questa abbia cominciato a invecchiare (eventualità che non troverebbe altro aggancio nei versi successivi); piuttosto il primo e il secondo tempo potrebbero essere scanditi da un matrimonio, dato che da Muzzarelli-Ottaviani-Zarri,
Il velo in area mediterranea, pp. 17-18 risulta che nell’Italia medievale, l’obbligo di portare il velo poteva distinguere le donne sposate dalle nubili (la norma è troppo variabile sull’asse del tempo e dello spazio per offrire un indizio per la localizzazione del sonetto).
Pure al v. 4 si segue As1378
socto sopre contro la variante dittologica
sotto esopre del concorrente, certamente più ovvia: il raro significato ʻin un giro completoʼ, seppure riferito ai cieli, è registrato infatti dal
GDLI, s.v. ʻsottosopraʼ, 2 sul fondamento di un’attestazione di Francesco da Buti (
Commento sopra la Divina Commedia, pubblicato per cura di Crescentino Giannini, in Pisa, per i fratelli Nistri, 1860, II, p. 427: «La Luna correa contra ’l primo mobile… cioè dall’occidente inverso oriente, ben che ’l primo mobile si tiri di rieto ogni contento da sé e roti sotto sopra in 24 ore da oriente ad occidente»). Preferibile è anche l’uso della 2
a persona al v. 11 attestato in As1378
Chay facto, contro R939
Ca fatti, dato posi del v. precedente (e come 2
a pers. potrebbe valere anche il
puose di R939).
Tra i due testimoni fenomeni di opposizione in adiaforia si verificano anche nelle predilezioni prosodiche, con R939 che sembra propendere per forme regolate: al v. 12 sembra più scontata la partitura del Riccardiano
Ofalsa iniqua dispiatata erea contro As1378
Ofalsa o iniqua ospietata orea che richiede dialefe dopo
iniqua. La scelta, come al solito, è comunque solo determinata da fedeltà al testimone base. Analogamente, in R939 ha l’aria di una correzione l’omissione di sì al v. 3
El caro laccio che stretto circo(n)de: una volta considerato
caro come scrizione soprannumeraria della forma apocopata, la tipologia attestata dall’Ashburnhamiano (
ELcaro laccio che si strecto circonde), con accento di 6
a su parola solitamente posta fuori accento metrico, è infatti poco comune, ma sufficientemente attestata (cfr. in proposito Beltrami,
Incertezze).
Come si è accennato, la qualità testuale delle terzine è meglio preservata in R939. Al v. 8 l’ordine delle parole del Riccardiano (
Che afatto agliochi far) evita l’ipermetria che si avrebbe con
Cha facto fare agliochi di As1378; ma è soprattutto ai vv. 11 e 14 che il testimone prescelto mostra segni di trascuratezza. A 11
scarsa è chiaramente influenzato da
labitantia che subito precede, ma fuori rima, poiché As1378 legge al v. 14
sparse, accordato con le
lagrime che aprono il verso. D’altra parte l’innovazione
scarsi >
scarsa si porta dietro pure un legame sintattico più prosastico del sintagma preposizionale: (
chay facto)
del ciel labitantia; meno raffinato di
icielj dellabitantia che è possibile ricostruire sulla scorta di R939. Perfettamente ammissibile è infatti la sua lezione, che accorda
scarsi a
icielj, pur modificando il genuino abitantia in
abitaçioni, prosodicamente eccedente. Si parafraserà dunque il verso ʻche hai impoverito la dimora dei cieli privandola della tua presenzaʼ (per scarsi cfr.
GDLI, s.v. ʻScarsoʼ, 18; per abitantia cfr. la voce del
TLIO).
L’attribuzione al Petrarca era stata negata già dal Debenedetti su base stilistica («E tantomeno gli attribuiremo l’altro,
Beato il vel, con certi accenni […] e certi epiteti […] che puzzano di tardo e ignobile petrarchismo»). Anche criterî oggettivi sconsigliano tale attribuzione. L’avverbio composto
socto sopre come si è accennato, si spiega meglio in aree, come quella mediana e settentrionale in cui il continuatore di SŬPER può sovrapporsi nell’uso a quello di SUPRA; nell’occorrenza petrarchesca segnalata, invece,
di sopre rappresenta il regolare esito dell’avverbio latino DĒSŬPER, che nel latino tardo e cristiano è normalmente usato, come nei
Triumphi, per indicare ʻquanto detto sopraʼ, ʻle cose predetteʼ. A conti fatti, malgrado la nota provenienza emiliana del testimone (su cui cfr. Contini,
Un manoscritto ferrarese, p. 604n) è difficile affermare che l’autore afferisse all’Italia settentrionale piuttosto che all’area mediana. Altri elementi, come l’uso dei pronomi, non sono decisivi per la collocazione nell’una o nell’altra zona, poiché l’occorrenza fuori rima di forme settentrionali sarebbe sempre imputabile alla patina introdotta dal copista. Certo è che sembra consigliabile escludere la paternità dell’autore dei
Fragmenta.