Testimoni:
g
Bd, f. 141bisr
g2
Cp392, f. 191r
g3 (Tou2102, f. 133r; V4784, f. 127v-128r).
Schema metrico: Sonetto ABBA ABBA CDC DCD
I confini disegnati dalla geografia di v. 1 permettono di identificare nella Casa d’Angiò la destinataria di questo sonetto ‘politico’: Puglia e Calabria definiscono infatti l’intera Italia meridionale ‘continentale’, ossia i territori del regno di Napoli (
regno o
reame “di Puglia”, come frequentemente vi si riferisce nel Trecento), mentre la Contea di Provenza e Forcalquier è stata, fin dal 1246, storico territorio angioino.
L’evento deplorato va certamente individuato nel conflitto fra due rami della dinastia per la successione al trono di Napoli, che ebbe una certa fortuna in poesia volgare (es. il
Contrastus domini de Congiacho edito da Giuliari,
Trattato dei ritmi volgari, pp. 226-248). Giovanna I, senza figli per la morte precocissima dell’unico maschio, aveva nominato quale erede suo cugino Carlo III d’Angiò-Durazzo; ma avendo lei sostenuto, nello Scisma d’Occidente, l’antipapa Clemente VII, fu dichiarata eretica da papa Urbano VI, che la depose appunto a vantaggio dell’ambizioso Carlo. Vistasi tradita, Giovanna ritirò la nomina di lui e al suo posto, nel 1380, adottò quale erede Luigi I d’Angiò, fratello del Re di Francia. Carlo, discesa l’Italia a capo di un esercito, assediò e prese Napoli nel 1381, spodestando Giovanna, fatta prigioniera con il consorte Ottone di Brunswick e poi uccisa l’anno successivo. L’altro pretendente Luigi approntò una spedizione per riconquistare il Regno nel 1382 ma morì nel corso dell’impresa, nel 1384. Gli stessi domini di Provenza e Forcalquier gli si erano nel frattempo rivoltati contro, rifiutando di riconoscerlo quale nuovo signore, e costituendo la Lega d’Aix in favore di Carlo. Morto anche quest’ultimo nel 1386, la contesa per il titolo proseguì fra i rispettivi successori Luigi II e Ladislao I, con la conferma di Luigi in Provenza, e dopo più di un decennio, nel 1399, l’insediamento definitivo di Ladislao a Napoli.
Alcune allusioni non generiche, quali la
semenza spenta a v. 4 e il
morto seme a v. 11 (l’estinzione del ramo ‘di Napoli’, quello di Roberto d’Angiò di cui Giovanna era figlia), così come l’
inocenza presa a v. 8 (la cattura della regina), corroborano l’identificazione dell’evento, permettendo di escludere altri traumatici fatti andegavensi anteriori (es. la congiura che uccise nel 1345 Andrea d’Ungheria, primo marito di Giovanna I e come tale duca di Calabria; o l’invasione, da parte del fratello di lui Luigi d’Ungheria, del regno di Napoli nel 1348 e 1350; mentre la morte dell’Acciaiuoli occasione della canzone
Giovanna femminella di Giannozzo Sacchetti non è per nulla pertinente). Qualsiasi episodio successivo agli anni Ottanta del Trecento si può d’altronde scartare non solo per l’antichità del ms. Bd, ma appunto per la separazione dei destini del regno di Napoli e della Contea di Provenza, di cui il testo presuppone l’unità.
Quegli stessi riferimenti sembrano stringere il cerchio alla prima fase della lunga guerra ‘di successione’, il giro d’anni 1381-84, e ancor di più, se la speranza (
spene) dei domini angioni che è stata
spenta è la stessa regina Giovanna assassinata, come mi sembra credibile, allora il sonetto va ancorato a un momento appena successivo alla morte di lei, nel luglio 1382. Si noti che più d’una delle fantasiose postille esegetiche di Bd, codice prossimo al capostipite
g, mostra per Giovanna un qualche interesse, che difficilmente sarà puramente gratuito, ma motivato da ragioni di parte: la glossa di
Rvf 238 (f. 93v), che individua nella «reina de pulglia» la misteriosa
real natura che incontra e bacia Laura sulla fronte, e ancora quella a
Rvf 262 (f. 99v), che attribuisce alla «regina depulglia» il ruolo di anziana e autorevole interlocutrice di madonna nel dialogo sulle virtù muliebri. E la significatività di tale termine cronologico, raramente così preciso, è evidentemente di grande rilievo per la datazione della genesi della ‘famiglia umbra’.
Gli aspetti propriamente testuali sono meno problematici di questi esegetici, relativi all’individuazione dell’occasione e dei suoi protagonisti. Al v. 3 è dubbio se debba leggersi, con i manoscritti,
che tanta fame di pace videte | spenta, la vostra spene, e la semenza, con
tanta fame oggetto del sintagma verbale
videte spenta, coordinato ma anteposto ai successivi
spene e
semenza; oppure, con il ritocco di Solerti,
che [’n] tanta fame. Accolgo l’elegante e economica correzione, che mi sembra preferibile sotto vari rispetti. Su un piano meramente letterale, l’infausto evento menzionato può por fine alle speranze dei sudditi, definitivamente deluse, ma non già al puro ‘desiderio’ (
fame) della pace. Se poi, come ritengo con convinzione, la
spene e la
semenza spente non sono sventure imprecisate, ma specifiche allusioni alla morte della sovrana con cui si estingue la dinastia, vi si abbinerebbe malamente in enumerazione tale più generico anelito di pace. Imporrebbe la lezione emendata
che [’n] tanta anche una lettura di secondo livello, che oserei suggerire, in cui
pace alluderebbe in cifra al pretendente d’Angiò-Durazzo, già da tempo noto come Carlo III ‘della Pace’, e
fame assumerebbe un’accezione sinistra in paio con quella parimenti negativa di
sete a v. 6: “poiché vedete spenta, nell’avidità di Carlo (=
’n tanta fame di Pace), la vostra speranza e la
semenza”.
È necessario soffermarsi anche su
superbia invidia e cupidita sete a v. 6, dove due sostantivi (=
cupidità sete) sono apparentemente giustapposti in fine al verso. La soluzione più ovvia è certamente, ancora, quella solertiana, di ridurre a aggettivo il primo dei due leggendo
superbia, invidia e cupida
sete, ma anche dando per buona questa direttrice mi sembrerebbe da prediligere l’emendamento alternativo
superbia, invidia e cupid‹
os›
a sete (vd. TLIO
ad vocem covidoso). In entrambi i casi l’intervento avrebbe il difetto di eclissare, rispetto al testo tradito, l’intertestualità con il proverbiale verso dantesco su
le tre faville c’hanno i cuori accesi: i tre vizi, associati fra loro e isolati rispetto agli altri peccati capitali, non mostrano una vera diffusione letteraria che a partire da Dante (Boccaccio,
Filostrato, pt. 3, ott. 93, v. 7; Fazio,
Dittamondo, L. 1, cap. 29, v. 1; F. Sacchetti,
Rime, 229 v. 14; etc.), e la dipendenza da lui è d’altronde rivelata anche dal calco prosodico:
superbia, invidia e avarizia sono (
Inf. VI 74):
superbia, invidia e cupidita sete. L’emendamento di Solerti
cupida sete implicherebbe dunque che l’instaurazione dello smaccato parallelismo con l’ipotesto sia innovazione del copista o, peggio, accidente del caso, ricostruzione che pare francamente difficoltosa. La pista congetturale non pare d’altronde l’unica percorribile, e a essa trovo preferibile supporre un lemma
cupidire con participio
cupidito, “divenuto avido” [Pecoraro], che, dichiaro apertamente, non è attestato, ma è di facile formazione da
cùpido, come
cattivire da
cattivo o
debolire da
debole o
dolcire da
dolce (o anche, supponendo un incidente gemello di quello a v. 3, una delle produttive formazioni parasintetiche dell’italiano antico e moderno,
[’n]cupidita sete).
La lettera del testo pone poi alcuni interrogativi ulteriori, su cui chiarisco brevemente la mia posizione. L’ossimoro
con fretta e con lentezza non è documentato come espressione idiomatica, ma non pone davvero difficoltà, essendo chiaro il senso di dosare sapientemente scaltrezza delle azioni e perseveranza nell’ordire trame e attendere il momento opportuno (cfr.
sperando teme a v. 9). L’
in ciò anaforico che apre il sestetto richiede una riflessione sulla sua funzione sintattica, con minime conseguenze sull’interpunzione: sebbene sia ampliamente attestato il costrutto
temere in ciò, in questo caso non può dipendere da
teme (
In ciò la mente mia ... teme), poiché colliderebbe con la reggenza diretta esercitata da
teme sull’infinitiva che segue (
la mente mia ... teme | la lor vendetta surgere); si potrebbe poi intendere
in ciò come sintatticamente autonomo, seguito da virgola, nel significato di “in tale circostanza”, quasi a dire “date queste premesse”, ma il confronto con casi analoghi sconsiglia questa scelta: Boccaccio,
Teseida, L. 3, ott. 73, v. 4: «in ciò sperando»;
Amorosa visione, c. 1, v. 16 «In ciò vegghiando»; c. 20, v. 82 «In ciò mirando»; e numerosi casi di «in ciò pensando», a cominciare da SP154 vv. 9 e 12. Fra questi è in particolare il confronto con SP154 v. 9, «La mente, in ciò pensando, si smarrisce», anche lì con funzione di raccordo fra quartine e terzine, a persuadere che
in ciò debba essere retto da
sperando (
in ciò la mente mia sperando): l’espressione, francamente inaspettata in un infelice contesto di
spenta spene, pone perplessità sull’individuazione del coreferente di
ciò in cui si spera, che certamente non può essere la funesta situazione descritta nei versi precedenti, e difficilmente potrà essere la
inocenza, che si direbbe ormai neutralizzata giacché
presa (a meno di voler pensare a un brusco trapasso dal linguaggio figurato, la
inocenza presa, la cattura di un personaggio innocente, a quello letterale,
sperando nella
inocenza, nella rettitudine e nella vittoria finale dei giusti). Intendo dubitativamente questo luogo con
sperando in senso assoluto (“sperar bene, auspicare una conclusione positiva”), e dunque “la mia mente, auspicando una conclusione favorevole per questo stato di cose (
in ciò), tuttavia teme etc.”. Se è corretto il riconoscimento della regina Giovanna quale la
presa e
spenta su cui è incentrato il sonetto, allora il
tu traditore nella terzina finale non può che essere Carlo, responsabile della sua cattura nonché, come subito si sospettò, mandante della sua uccisione. Nonostante in tutti i testimoni il v. 12 sia stabile nella desinenza in -
i e il v. 13 in quella in -
e, il contesto rende indubbio che anche
vede e
geme di quest’ultimo siano declinati alla 2
a pers.: “se non vedi... hai ciechi gli occhi”.