Testimoni:
§π§
Pr1, f. 25v: Sonetto;
g
Bd, f. 141v-141vbisr
g2
Cp392, f. 190v
g3 (Tou2102, f. 132v; V4784, f. 127r-v).
Schema metrico: Sonetto ABBA ABBA (
C)DD DEE
La lezione dei testimoni procede compatta e senza difficoltà fino ai due versi finali, laddove inciampa in un’infrazione metrica che, lasciando in entrambi i rami un verso irrelato, denuncia un problema testuale: in
g abbiamo CDD DEE (
luce :
mano :
lontano :
piano :
nove :
trove), mentre in Pr
1 CDD DCE (
luce :
mano :
lontano :
piano :
voce :
trovo, con rima siciliana
luce :
voce che occorre in Guittone,
O donne mie, merzé, considerate, vv. 14-15).
Le due distinte configurazioni sono evidentemente risultato del tentativo, di uno dei due, di rimediare malamente a un problema: o di Pr
1, che avrebbe sostituito
note nove con
nuove voce, per accoppiare la rima C di v. 9; o viceversa di
g, che avrebbe trovato un abbinamento al
trovo finale coniugandolo al congiuntivo -
ove e avanzando
nuove in fine di verso. Delle due, questa seconda ricostruzione sembra meno agevole, poiché non vi sarebbe stato motivo di mutare
voce in
note, e dunque ci aspetteremmo, rispetto alla lezione di Pr
1, un mero scambio
nuove voce >
voce nuove; ma è evidente il grado di aleatorietà di una simile valutazione in assenza di informazioni sul decorso dell’errore.
Proprio dal momento che
g e Pr
1 offrono diverse situazioni di partenza, entrambe inaccettabili, le possibilità logiche di intervento sono numerose (tanto più se si tiene conto della doppia alternativa di rima E, -
ove vs. -
ovo), e sarebbe inutile enumerarle: basti dire che, se la terna in rima D
mano : lontano : piano dei vv. 10-12 è corretta, allora l’errore è da ravvisare nell’infrazione di una complementare terna C, ora spezzata: l’ipotetico originale sarebbe dunque con terzetti su due rime, e dunque, a partire da Pr
1, dovremmo emendare in CDD DC[C], oppure, a partire da
g, in [E]DD DEE (così indicato per agevolare il confronto con lo schema di
g offerto
supra, ma ovviamente in questo caso E andrebbe segnato come C, vd. anche fra poco).
Se invece fosse la stessa terna in rima D a essere frutto di un allineamento innovativo, allora ci troveremmo in presenza di un originale con terzetti su tre rime, e dunque ancora, a partire da Pr
1, gli schemi più plausibili sarebbero CD[E] DCE oppure C[E]D DCE (anche qui, E andrebbe indicato come D e D come E); e invece, a partire da g, CDD [C]EE o CD[C] DEE.
Fra le ipotesi formulabili, la più ovvia è senz’altro al v. 12
soave e [dóce], “dolce” (:
luce; seguendo
g, dunque con
nove : trove ai vv. 13-14), che però è interdetta dalla presenza di
dolce proprio al successivo v. 13, a meno che non si voglia postulare a monte una commutazione di
dolce e
piano fra v. 12 e v. 13. Il lemma occorre qui in Pr
1 proprio nella variante
doicie, con riduzione del nesso consonantico, coincidenza che rende verosimile la congettura; e tuttavia va segnalato che si tratterebbe dell’unica occorrenza in poesia antica di tale forma in sede di rima. Sempre stando con la trad. umbra, ma su due rime, restituirebbe una triade C un emendamento a v. 9
tu[e] bell[e prove] (:
nove :
trove), nell’accezione registrata dal
GDLI sign. 5 di «sembianze, aspetto esteriore», che parrebbe tuttavia veramente comune solamente in senso negativo (es. «false prove», «cambiare prove»). Seguendo invece Pr
1, sarebbe pertinente con il tema della lontananza una congettura ancora a v. 12,
Udirò quel cantar soave [a provo], “da vicino” (come in
Inf. XII 93, vd. TLIO,
aprovo (1)), in rima con
trovo, che, a differenza delle due precedenti, è ipotesi forte di una facile e evidente causalità (
soave a provo banalizzato in
soave e piano, tipica
iunctura).
Quanto poco feconda sia una simile impostazione ‘combinatoria’ del problema è tuttavia evidente poiché nulla impone che l’innovazione sia così circoscritta, e che basti un intervento ‘chirurgico’ a porvi rimedio. Al contrario, è plausibile che la rima baciata finale di
g costituisca il distico di un sonetto caudato, i cui sedici versi sarebbero stati ridotti ai quattordici canonici – vale a dire CDD D[CC] EE – secondo una casistica osservabile in parte della tradizione di SP141 (dove però i punti di sutura sono vistosi, contrariamente al caso in oggetto). E ancor più va osservato, a questo proposito, come il conclusivo v. 14 rassicuri molto poco circa la sua attendibilità, e ciò al di là della pura questione rimica: la versione tràdita da
g,
quando l’arò, perché lontan me trove, con
l’arò riferito al canto e alle note, “avrò quel canto” = “potrò ascoltarlo”, si presenta come un malfatto rattoppo, semanticamente vaporoso. L’altra di Pr
1,
quanto l’aere per cui lontan mi trovo, da intendersi forse “voci amorose e dolci e rinnovate, | così come sarà (in primavera) l’aria che mi separa da madonna”, sembrerebbe cavillosa, se non vi si trovasse un calzante riscontro in
Rvf 129, v. 60, «quanta aria dal bel viso mi diparte». La soluzione grandemente più probabile mi pare tuttavia che
quando laro / quanto laere, con il suo -
a/er(e) finale, adombri un verbo all’infinito, retto da
Udirò del v. 9, e a sua volta reggente
perché con funzione dichiarativa (
GDLI ad vocem sign. 8), che renderebbe puntualmente ragione anche del congiuntivo
trove: per esempio
[querelare], che però non è direttamente attestato prima del sec. XV, o persino il meno ovvio sinonimo
[guaiolare], “lamentarsi” (
[condolere] è invece quasi sempre pronominale), “udirò quel cantar soave e quelle dolci note... lamentare che (ora) io mi trovi lontano”.
La presenza di un archetipo è dunque indiscutibile, e nonostante ciò, dati gli elementi enunciati, non è possibile identificare esattamente una singola sede di errore per recintarla con
cruces: la certezza espressa da Solerti e dunque da Vattasso,
Cod. petr. Vat. che a essere guasta sia la seconda terzina sembra guardare piuttosto a questo sibillino
quando laro, che non al problema del verso irrelato; e perciò sembra più equilibrata la posizione di Vattasso,
Otto sonetti, che si limitava a segnalare l’assenza della rima fra v. 9 e gli ultimi due versi.
La presenza al v. 8 sia in
g che in Pr
1 di
scampate accordato con nome maschile
ei gioveni arboscelli ci avvicina, per l’originale del testo, alla lingua tipica di
g, in cui il fenomeno è ricorrente (SP046, v. 11
ce fa costante; SP056 v. 8 in apparato
li fati extreme). Anche alla luce di questa considerazione, si offre la lezione di questo insanabile testo secondo Bd.