Testimoni:
g
bd* (Bd, f. 55v: Scriue del uaio [a.m., mrg.]; Gamb93, f. 33r);
g1
AD356, f. 39r-v
g2 (Cp392, f. 54r-v: Idem [= No(n) de Mes(ser) F(rancesco) P(etrarca)] [a.m., mrg.]; Tou2102, f. 52r).
Bibliografia: Solerti,
Disperse, pp. 237-38; Sberlati,
Nuda filologia, p. 523.
Schema metrico: Sonetto ABBA ABBA CDC DCD
Non sarebbe così ovvio, senza la glossa in margine a Bd, riconoscere che l’autore del sonetto «scrive del vaio», la pelliccia di color
griso e bianco che adornava l’abbigliamento di cavalieri, giudici, dottori, notabili, ma la cui diffusione presso strati sempre più ampi di nuovi ricchi suscitava qualche rimostranza: si veda per esempio Bindo Bonichi,
Non creda alcun, quand’ode dir canaglia, vv. 7-8, ma soprattutto affine a questo sonetto – come richiama Solerti – è quello anonimo
Io mi lamento e doglio e son il vaio (Merkel,
Come vestivano, pp. 55-56). Rispetto tuttavia a quest’ultimo, ove il vaio si presenta e lamenta in prima persona lo scadimento del suo pregio, o a una superficiale reprimenda quale
Tal è che porta indoso gli ermelini di Antonio Beccari,
O bestiuola pare assumere meno generiche implicazioni anti-‘democratiche’ quando al v. 7 auspica un giorno in cui
in V serà tornato il De. In tale luogo, Solerti, che non riusciva e non poteva riuscire a spiegarsi la lezione di Gamb93 (
de quando in usera tornato ilde), congetturava
quando ’n voi serà tornato ’l de’, segnalando con un
sic l’apparente
nonsense. Con l’allargamento del testimoniale, il sostegno di Cp392 (
in ·V· ... il ·d·), AD356 (
in ·V· ... ’l de) e Tou2102 (
in ·V· ... il ·de·), che mostrano di avere ben chiaro il senso del passo, rende facile comprendere che oggetto della polemica è l’eccessivo allargamento della base sociale dei
collegi, di cui si auspica una riduzione del numero di membri da cinquecento (D) a cinque (V, da leggersi [u] secondo l’alfabeto medievale). Mi sembra per inciso che il caso sia rappresentativo delle difficoltà metodologiche poste da un contributo come quello di Sberlati, che, ricorrendo al solo Gamb93 e ignorando il resto della tradizione (ma in questo caso in verità non intenzionalmente, dacché il testo non gli risulta altrimenti attestato), mette a testo
de quando in sera tornato il de.
Accertata così la lezione genuina, i dubbi si spostano sulla precisa identificazione del
collegio in questione, definito
tuo, cioè “del vaio”. L’ipotesi più lineare, che si tratti di un collegio di giudici e dottori, si può escludere non solo perché per un simile organismo il numero di cinquecento sarebbe spropositato anche con beneficio d’iperbole, ma soprattutto perché le terzine rendono chiaro che lo strato sociale bersaglio dell’attacco sia un altro, anzi sia opposto, vale a dire i piccoli padroni (
quel che siede al banco). Mi sembra lecito allora ritenere che i
collegi in questione siano i grandi Consigli deliberativi della vita comunale, e che il vaio, ornamento consueto per alti dignitari e ambasciatori, possa qui essere esteso a significare le cariche politiche in generale. La previsione del sonetto sarebbe d’altro canto in linea con lo spirito dei tempi, che porterà nel corso del Trecento, contro la tendenza dugentesca, a una progressiva contrazione della composizione di tali assemblee (Tanzini,
A consiglio, partic. pp. 143-45), fino a quel momento composte, in media, proprio da cinquecento rappresentanti (ivi, pp. 67-72). La cifra potrà così intendersi in modo approssimativo, ma pare preferibile e pregnante che questa tirata antidemocratica prenda di mira uno specifico Consiglio dei Cinquecento, come esistevano nel XIV secolo in vari Comuni italiani, quali Perugia, Todi, Brescia, Parma, Verona (ivi, p. 68, p. 73, e comunicazione personale dello stesso Tanzini).
La sola altra tessera testuale in cui
g si divide è quella al v. 6, dove Bd legge
et daui adaltrui de te piena fe, ma poi, con marcatori
b e
a in interlineo, inverte l’ordine in
et adaltrui daui: lo segue il
descriptus Gamb93, che però passa
altrui ad
altri. I restanti manoscritti confermano l’ordine ‘emendato’
altrui daui, ma selezionando l’uno o l’altro dei due monosillabi in principio di verso:
e(t) altrui daui, omettendo
ad, da parte di AD356 Tou2102, oppure
Adaltrui daui, omettendo
et, da parte di Cp392. Il fatto che tutti e due siano, sia pur variamente, presenti nell’uno e nell’altro ramo di
g rende una scelta sicura conservarli entrambi, ma evidentemente sanando l’apparente ipermetria con la riduzione di
et a
e in sinalefe:
e ad altrui davi de te piena fé.
Al v. 10, per
griso, “grigio”, è solo un
lapsus di lettura la variante di Solerti
grifo, non attestata nel testimoniale.