Testimoni:
g
Bd, f. 137r-v
g1
AD356, f. 96r
g2
Cp392, f. 145r-v: No(n) de M(esser) F(rancesco) P(etrarca) [a.m., mrg.]
g3 (Tou2102, f. 128r-v; V4784, f. 123r).
Bibliografia: Solerti,
Disperse, p. 196; Barber,
Disperse, pp. 30-31; Vattasso,
Cod. petr. Vat., pp. 184-85; Vattasso, Otto sonetti, p. II.
Schema metrico: Sonetto ABBA ABBA CDE CDE
Secondo il primo editore Marco Vattasso, «l’argomento di questo sonetto è simile a quello del ben noto
Vago augelletto che cantando vai»; ma a Rvf 353,
fragmentum dalla collocazione macrotestuale strategica –ultimo testo del Canzoniere prima della canzone alla Vergine secondo la giacitura fisica della ‘forma Vaticana’, in cui molti lettori antichi conobbero la raccolta –, si intersecano memorie da
Rvf 311,
Quel rosignol, che sì soave piagne. È anzi da quest’ultimo che derivano precisi prelievi, v. 1
sì soave piagne (v. 4
piangea soavemente), v. 2
sua cara consorte (v. 10
tua vaga ... compagnia), anche potentemente risemantizzati come a v. 6,
come ei cantando se deletta e dole (v. 14
come nulla qua giú diletta, e dura), ma soprattutto il ben riconoscibile andamento sintattico dell’incipit,
Quel rosignol, che (
Quello augellin, che); mentre la trama di
Vago augelletto è più sottile, soggiacente al motivo della prima terzina, quello del confronto paradossale fra l’usignolo che attende il ritorno della compagna e l’io cui qualsiasi speranza è preclusa (vv. 9-10,
I’ non so se le parti sarian pari, | ché quella cui tu piangi è forse in vita). Da entrambi gli ipotesti,
Quello augellin si distacca per l’ambientazione diurna: v. 3, «mentre elli avea el sole» (su cui vd. in fine; contro
Rvf 311, v. 5, «tutta notte», e
Rvf 353, v. 3, «la notte e ’l verno a lato»).
Il gruppo
g3 si riconosce qui per un errore non separativo a v. 11,
fece (
face), che spezza la serie rimica in -
ace, e per una micro-caratteristica al v. 4,
piangeva (
piangea), che ritocca la prosodia imponendo una lettura sineretica
piange2va3 soa4vemente, in luogo di quella dieretica che qui sembra naturale,
piangea2 so3a4vemente. Si ripartiscono con distribuzione diseguale invece al v. 5 le varianti di
le fronde (lezione di Bd), dove è forse la reazione alla desinenza plurale in -
e a innescare, in AD356 e Cp392 (indipendentemente, perché il caso isolato non può certo essere assunto a prova di parentela), una conversione al singolare, rispettivamente
la fronde e
la fronda, mentre in
g3 una regolarizzazione in -
i (
lifrondi V4784,
lefrondi Tou2102). Contraddistingue poi
g2 la lezione
brevi (
breve) a v. 9, presumibilmente indotta da un ‘tic’ all’accordo, del tutto fuorviante semanticamente, con il successivo
aspetti. Allo stesso verso,
felice passa a
felici in Cp392 e V4784, vale a dire, ragionando per gruppi, in
g2-Tou2102, anche questo verosimile
lapsus di
g2, facilmente emendato dal codice di Tours. Non si segnala in apparato l’ipermetria grafica a v. 12,
misero (
miser), che similmente accomuna Cp392 e Tou2102, e dunque che, da
g2, V4784 potrebbe aver corretto in modo autonomo. Al livello superiore, è propria dell’intero
g1 la variante
solea a v. 13, in luogo di
solia, che di nuovo coinvolge la rima (:
compagnia), tuttavia non solo a rigore accettabile, perché ‘siciliana’ (con
solea in rima con
mia e
via si apre ovviamente la canzone 4 di Dante), ma anche facilmente reversibile da parte di Bd, qualora fosse stata originariamente comune a tutto
g.
Errori dell’archetipo
g sono infatti sospettabili per più di un luogo in questo testo dalla sintassi problematica. Dato il
mirandol con cui si apre v. 5, la sensibilità di tutti gli editori ha percepito la quartina iniziale come autonoma, e perciò avvertito l’esigenza, onestamente comprensibile, che in essa vada chiuso il primo periodo. Ma il testo dei quattro versi, così come tradito, con le sue due relative inserite una nell’altra (
Quello augellin che
nella primavera piangea; el dolce tempo che
anuntiar ce sole) manca di frase reggente. Vattasso e Barber, con soluzione
tranchant, cassano il secondo
che, dando così il ruolo di principale a
piangea (
Quello augellin, che ne la primavera il dolce tempo Ø
annunzïar ci sole, piangea). Non diversamente si muove Solerti, che però cerca di giustificare il
che eccedente con un emendamento
il dolce tempo [d]’annunziar ci sole, prospettando dunque uno scambio paleografico
ch >
d, con esito tuttavia infelice (il modale
solere regge l’infinito senza preposizioni; infatti anche Vattasso,
Cod. petr. Vat., di solito alquanto acquiescente, non accoglie l’opzione). Un micro-incidente in questo punto è oltremodo probabile, e l’ipotesi di un
che sorto in
g per generazione spontanea, graficamente allineato a quello della riga superiore, che ‘riempie’ il verso risparmiando la dieresi su
annunzïar, è del tutto plausibile. E nonostante ciò è opportuno chiedersi se la lezione dei codici non sia salvabile postulando un anacoluto fra prima e seconda terzina, con
quello augelletto in funzione di tema sospeso, ripreso anaforicamente da
mirandol, secondo una tipologia di cui si possono reperire calzanti esempi nei
corpora (non vi sono casi davvero equivalenti, invece, fra quelli citati da Dardano,
Sintassi, pp. 192-194):
Bono Giamboni,
Orosio, L. 6, cap. 7 - pag. 369, r. 28 «e ancora della Spagna più presso ebbero adiuto, e spezialemente fecero loro dogi coloro, che di Sertorio fuoro cavalieri.
Questi tutti apparecchiando d’assediare Crasso,
assalendoli Crasso nel campo loro, tutti quanti
li disperse»
Leggenda Aurea, cap. 148, S. Dionigi - vol. 3, pag. 1290, r. 18 «Abbiendo dunque Paolo cerchi tutti gli altari e, veduto tra gli altri l’altare del Domenedio non conosciuto, disse a loro Paulo: “
Quello Dio che voi adorate [~
quello augellin che piangea],
non conoscendolo [~
io mirandol],
questo v’annunzio [~
mossi sospiri], che è veragio Dio, il quale fece il cielo e la terra”»
Pur consapevole di quanto tale soluzione sia difficoltosa, ritengo preferibile, preso atto dell’accettabilità del testo tradito, conservare questo anziché intervenire. Seguo lo stesso principio a v. 5, che accolgo, come in
g, con accento di quinta, per quanto un’inversione
mirandol io – già suggerita in nota da Vattasso,
Otto sonetti – risolverebbe il problema con economia, sarebbe preferibile per la struttura dell’enunciato (come nell’es. citato «assalendoli Crasso»), ed è, francamente, probabile lezione originale; in questo luogo anche Vattasso e Solerti conservano «Io mirandol», preceduto però per loro da fine di periodo, mentre Barber aggiusta in «[et] io mirandol fra Ø frondi». Data la loro collocazione a contatto, mi sembra poi fuori discussione intendere il sintagma
el dolce tempo etc. come apposizione incidentale di
primavera, ma è almeno da segnalare la più sofisticata alternativa che lo vedrebbe quale oggetto della frase:
Quello augellin che nella primavera piangea el dolce tempo.
Ispira maggiore fiducia, quantunque anch’esso peculiare, il costrutto della prima terzina, vv. 9-11. Vattasso e Solerti ne eludono le difficoltà, lasciando il periodo non interpunto,
che così breve aspetti | tua vaga et amorosa compagnia | che s’apra il cielo, in cui pare difficile ravvisare un senso che non sia quello, insoddisfacente, di “aspetti la tua compagna che apra a sé il cielo”. È più risoluto Barber che, spingendo su questa linea, ritocca, senza esplicitarlo,
il cielo in
al cielo, e dunque interpreta “aspetti la tua compagna, che si apra (= in volo, ad ali spiegate) al cielo” (trad.: «O happy you, who will wait so brief a time for your dear and loving companion, when
she opens herself to the sky»). Non ritengo che il testo tradito richieda emendamenti, se si intende il verbo aspetti come esercitante una doppia reggenza nei confronti di un nome (
aspetti... tua compagnia) e una completiva (
aspetti... che s’apra el cielo). La tipologia, definita da Dardano (
Sintassi, pp. 187-188, tipo I) “subordinazione mista”, è non rara e ben nota agli studi, ma qui sorprende semmai che la coordinazione fra la frase e il complemento oggetto si instauri per asindeto. Una ricerca di specifici esempi affini in Bergmeier,
Strutture asindetiche nella poesia, è interdetta dalla troppo vaga classificazione del fenomeno come generica “coordinazione per ET”; ma l’abbondanza di casi asindetici, non meno arditi, che vi si trovano registrati, rassicura senz’altro sulla liceità di quello in oggetto. Si tratta in fondo di una costruzione identica – per quanto in quest’altro caso passi quasi inosservata – a quella riscontrabile ai vv. 5-6, e qui immune da ambiguità, laddove
mirando regge, ancora per asindeto, un complemento oggetto (
mirando-lo) e un’interrogativa indiretta (
mirando... come ei cantando se deletta e dole). La locuzione
si apre il cielo si troverebbe in verità, nella grandissima prevalenza dei casi, nel significato di “accogliere un defunto in paradiso”, che qui non è assolutamente pertinente. L’accezione ‘meteorologica’ che qui adotto, consona al contesto primaverile, è minoritaria sì, ma nondimeno attestata, almeno in Sacchetti (
La battaglia delle belle donne, II, XXXIX 8: «certo la suo biltà non è da fole, | e ciò comprende chi nel cuor l’assegna | immaginando quando gli occhi gira, | che par
che s’apra il cielo e fugga ogn’ira») e nelle rime del Boccaccio (15, v. 11: «Nel qual, quando scintillan quelle stelle | che la luce del sol fanno minore, |
par s’apra il cielo e rida il mondo tutto»).
Faceva difficoltà ai precedenti editori anche il v. 9, «che in sì breve aspetti», essenzialmente per ragioni metriche: Vattasso,
Otto sonetti, indica in nota la mancanza di una sillaba al verso, che da Solerti in poi si legge sempre emendato in «che così breve aspetti». Premesso che l’espressione
in così breve è attestata (Fazio,
Rime, ed. Lorenzi, attr. IV, v. 62 «a così dolce e grazïoso acquisto | parea che fusse questo signor giunto, | ed ora t’è, in così breve, tolto»), e che
in breve si trova specificamente in compagnia di verbi di attesa e indugio (
Cronica deli imperadori, pag. 224.25: «ma elo
in brieve morando, el precioso thesauro li romase infina al dì d’anchoi»; Guittone,
Rime, ed. Egidi, son. (D.) 125, v. 9: «però che
’n breve sua mercede
attendo»), non trovo motivi per voler forzatamente ortopedizzare questo verso, che offre ben due opzioni per la dialefe necessaria a ripristinare la misura, dopo
che, oppure dopo
breve, di cui è evidentemente la prima, dopo monosillabo, quella preferibile:
felice te, che ˇ in sì breve aspetti.
Recepisco senza esitazioni la lezione tradita anche al v. 3. Barber ardiva emendare in «mentr’elli [attendea] ’l sole», dal momento che, intendendo il soggetto
elli co-referente di
augellin, il verbo avea «makes little sense». Ma la frase è invece certamente da interpretare come avente soggetto impersonale,
elli avea x, “c’era x”, secondo una costruzione diffusissima in antico nella forma «ci ha», «ci avea», ma attestata anche come «egli ha», «egli avea», in particolare in volgarizzamenti dal francese per influsso di «il avoit»:
Fatti dei Romani (H+R) [Caes. Gal.] (H) 68 - pag. 164, r. 3
«quelli avesono baldanza d’andare in abandono a loro volontà.
Egli avea un’acqua in quelle parti ove li Ulicois ierano già venuti per passare verso Sansogna ov’elli si ne credevano andare. Quella acqua coreva sì piano che apena poteva l’uomo conoscere in quale parte ella coreva. Saones avea nome.» [traduce
Li fet des Romains II 2, 11: «Il avoit une iaue cele part ou li Helveçois estoient ja venu por passer vers Santonge (...) Arar avoit non», che a sua volta riscrive
Caes. Gall. I 12, 1: «Flumen est Arar, quod per fines Haeduorum et Sequanorum in Rhodanum influit, incredibili lenitate, ita ut oculis in utram partem fluat iudicari non possit. Id Helvetii ratibus ac lintribus iunctis transibant.»]
[Luc. V] (R) 44 - pag. 379, r. 29
«L’altra acqua avea nome Apge, più cheta acqua e più grande che Ginese; e questa medesima portava navilio. L’alta roca ch’avea nome Durazo ov’
egli avea un forte castello fermato d’antica opera fu là intorno, il piue sicuro luogo e ’l più difendevole di tutta Grecia, e sedeva nel’uno de’ capi del monte che Pirus iera detto» [traduce
Li fet des Romains III 10, 9: «La haute roche qui avoit non Duranz ou Durache, ou il avoit un fort chastel fermé d’anciene oevre, fu entor. Ce estoit li plus defensables leus de tote Grece, et seoit en un des chies de ce mont qui Epyrus estoit dit»]
[Luc. VI] (R) 48 - pag. 388, r. 27
«Durazzo, un sovrano tertere del monte di Pirusso, ov’
elli aveva uno forte castello fermato e bene guernito di vivanda, iera assai presso d’ivi» [traduce
Li fet des Romains III 11, 2: «Duraz Duraches, uns soverains tertres dou mont de Epirus, ou il avoit un fort chastel fermé bien garni de viande, ert assez pres d’iluec»]
Lancellotto. Versione del «Lancelot en prose» cap. 65 - pag. 166, r. 37
«Sì trovarono dallato la foresta uno camino forcato ov’
elli avea una croce di legno, e ’n quella croce avea lettere scritte che dicieno...»
cap. 75 - pag. 296, r. 4
«Allor vegono di sotto loro una piccola vallata ov’
egli avea una torre forte e alta»
cap. 76 - pag. 300, r. 8
«Elli facea molto gran caldo, sì come ne la festa di Sancto Giovanni; sì ebono ne· luogo trovato, disotto l’ombra d’un seccomoro, una fontana bella e chiara ov’
egli aveva un cavaliere e due damigelle ch’avieno fatto stendere una bianca tovaglia sopra l’erba verde e mangiavano ne· luogo molto invisiosamente»