Testimoni:
g
Bd, f. 141v
g2
Cp392, f. 190r-v
g3 (Tou2102, f. 132r-v; V4784, f. 127r).
Secondo il tipico principio inventivo di questa serie di testi, la riscrittura di un
fragmentum del Canzoniere genera il presente sonetto, in cui è impossibile non riconoscere il modello di
Rvf 61,
Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, e l’anno. E delle svariate imitazioni petrarchesche di
g, è questa forse la meno creativa e la più fedele all’ipotesto, con la benedizione, nelle quartine, dell’
hic et nunc dell’innamoramento, in un assortimento sinonimico più sobrio del corrispettivo originale; e parimenti l’
eulogia, nel primo terzetto, delle sofferenze d’amore patite, e nel secondo, felicemente, della poesia amorosa. La stessa sequenza rimica A,
giunsi :
punsi :
compunsi :
racongiunsi, è foggiata su quella B di Rvf 61,
punto :
giunto :
congiunto :
punto.
Proprio a proposito della rima A, come nel precedente
Le belle rose anche qui i testimoni si dividono in un’alternativa adiafora: per i quattro rimanti, grammaticalmente identici e non ambigui – tutti 3
a pers. sing. del passato –, Cp392 propone la forma ‘toscana’ e moderna in -
unse, mentre
g3 quella più eccentrica, perché identica alla 1a pers., in -
unsi. L’ago della bilancia è come sempre Bd, che interviene su una scriptio inferior in -
unse, raschiando il tratto inferiore delle
e e limandone l’occhiello, così da ritoccarla per quattro volte in -
unsi: difficilmente si può credere che il copista si sia dato pensiero di instaurare su rasura le forme in -
i, se non trovava queste accettabili, e tali varianti risultato della correzione perciò si mette a testo. Nella sezione dei
Rvf, d’altronde, a fronte di sei occorrenze di
(a)giunse dell’Originale, Bd legge
giuns-i almeno a
Rvf 100, v. 9 [f. 45v], mentre in ben quattro casi (
Rvf 33, v. 10 [f. 21r];
Rvf 78, v. 1 [f. 39v];
Rvf 325, v. 19 [f. 120r], e ivi, v. 92 [121r]) reca un ritocco dall’una all’altra forma (
giuns/i/ →
giuns[e]). La desinenza in -
i per la 3
a pers. del perfetto sigmatico – fuori dall’area meridionale estrema dov’è del tutto normale [Rohlfs §529 e §581] – è indubbiamente rara, e nondimeno ovunque attestata:
lomb.: «Eva dissi a lo serpente» [Pietro da Bescapè,
Sermone, v. 117];
ver.: «Santa Maria Madalena tollo una livra d’onguento precioso e sì unsi li pei de Iesù Cristo» [
Passione ver., pag. 3 r. 8];
bol.: «Metello Pio in Yspania contra Herculeo, quando il suo nemico venne con la soa gente ordinata alla battaglia nascando il giorno, essendo il tempo caldissimo, rittenne li soi nel campo fino alla sexta hora del dì. E per questo modo, essendo le forçe di’ soi entere e fresche, legieramente vinsi quilli affiticati de grande fervore» [
Stratagemata di Frontino (volgarizz.), L. 2, [cap. 1], pag. 24v, r. 9];
ancora bol.: «se lege in lo Vedre Testamento che David propheta, siando inamorado dela muglere d’Uria, ello çaque sego e sì la ingravedò; sì ch’el mandò per Uria, ch'era al’asedio d’una citade, perché ’l figlolo gli fosse atribuido. E siando vegnudo, odì quello che avea facto la muglere; no si volsi avisinare» [
Flore de virtù, cap. 6, pag. 170, r. 13];
pis.: «In Pisa si fe’, sabato, uno chonsiglio che tornassono tucti gli usciti et don Piero Ghanbachorta et ogni uno, et chosì si vinsi» [Ranieri Sardo,
Cronaca di Pisa, pag. 175, r. 4];
abruzz.: «Alora Manfredi sospirando disse: - Or dove sono li gebellini ch’io ò facti signori di casa loro non sença gran dispendio mio e soleccetudine? - Alora si rivolsi ai sui baroni, dicendo: - Io giuro in lealtà de la regale corona che dicti Gelfi da me descaciati non possono oggi [essere] altro che vitorosi» [Armannino,
Fiorita (12), pag. 543, r. 24].
Nella terzina finale, a fronte del
benedictus di Petrarca per le proprie poesie in lode di Laura, con suggestiva
variatio il sonetto benedice la tradizione della lirica d’amore, classica (
antiche) e romanza (
nove), con la cui pratica e con la cui lettura l’anonimo autore ha stabilito un’intima fedeltà. Ma il v. 13,
scripture che toccan dei (o
di)
vaghi disiri (+ 1), è ipermetro in tutti i manoscritti. Se Vattasso,
Otto sonetti, riproduce l’imperfezione come tale, segnalandola in nota, Solerti all’opposto interviene pur passando il problema sotto silenzio: e, valorizzando
toccan, opta per una tipica espressione meta-letteraria, «u’ tocca dei», diffusa nei commenti per introdurre rimandi intratestuali:
Ottimo, Inf., c. 5 - pag. 72, r. 19
«Questo Minos è in figura d’uno discreto e giusto giudice, sì come fu discreto e giusto Minos, Re nell’isola di Creti, il cui figliuolo fu Minutauro, e le figliuole Adriana e Fedria, della cui materia si toccherà infra, dove tocca del Minutauro, capitolo XII Inferni.»;
Ottimo, Par., c. 10, proemio - pag. 239, r. 21
«del quale zodiaco più pienamente si tratterà infra, capitolo XXII Paradisi, dove tocca il suo sallire nella VIIJ spera. Alla IJ parte, dove tocca del ciclo d’Equattore, del Sole brievemente toccheremo alquanto»;
ivi, c. 20, proemio - pag. 449, r. 20
«circa la V parte, dove tocca della profonditade del divino consiglio, è da notare, che come è immensa la bontade e ’l savere divino, così sono immensi e sanza fondo li divini consigli, li quali elli chiama in questo capitolo predestinazione».
Non si può tuttavia non notare che, in simili esempi, la formula sia giustificata dalla presenza di un soggetto implicito –
(l’autore) tocca, (il libro) tocca – come appare molto chiaro negli usi danteschi, quello del
Convivio (IV, 5: «maggiormente di te parlare non si può che tacere, e seguire Ieronimo quando nel proemio della Bibbia, là
dove di Paulo tocca, dice che meglio è tacere che poco dire»), e quello celeberrimo della
Commedia, cui certamente guarda Solerti (
Inf. 25, vv. 94-95: «Taccia Lucano omai
là dove tocca | del misero Sabello»). Assente questo, non si vede come accettare tale uso di
tocca assoluto e senza reggenza: perciò Vattasso,
Cod. petr. Vat., che tende a accogliere la lezione solertiana smussandone certi oltranzismi, preferisce mettere a testo
scripture u’ toccan, che ha quantomeno il vantaggio di conservare la forma plurale, concorde nei manoscritti, e di non infrangere l’accordo verbale. È certamente possibile concludere che una soluzione più economica e meno arbitraria sia trattare la difficoltà come un’ipermetria grafica,
scritture > scrittur’. L’apocope davanti a consonante di sostantivi in -
ura, seppure non frequente, si registra in svariate occorrenze, e non c’è ragione di non ammetterla come legittima:
Jacopone (ed. Ageno), 46, v. 42 «ché m’hai lo corpo enfrenato, - che ’n tante
bruttur m’ha sozata»
Antonio Pucci,
Cantari di Apollonio, 6, ott. 34, v. 2 «E quando el fu alquanto riposato / le sue
desaventur’ disse a una a una»
Neri Pagliaresi,
santo Giosafà, pt. 5, 23, v. 7 «incontanente, non già troppo stando | (...) | tutte le
creatur mostrar dolore»
Si noti che si ha qui al v. 8 la sola attestazione nei
corpora dell’italiano antico del raro verbo
raccongiungere, e con ogni probabilità un
unicum assoluto della costruzione pronominale
raccongiungersi, “raccongiungere a sé qlco.”, nell’incerta accezione di “unire a sé” (
TLIO), oppure, più precisamente, “fare proprio, occupare interamente” (
GDLI, sign. 2).
È infine degno di menzione che Cp392, in luogo di «e benedetti ancor tutti ei martiri», legga
benedecte sien, tanto presente poteva essere al copista la memoria di
Rvf 61, che aveva trascritto a f. 29r (v. 12: «et
benedette sian tutte le carte»).