Testimoni:
x
R939, f. 102vb [Sonetti fatti p(er) mess(er)e francescho | petrarcha poeta fiorentino, f. 101ra];
a
Pr1, ff. 16v-17r; V5155, f. 231v;
500
Bart(2), f. 46r: M(esser) francesco Petrarcha [poi depennato e apposta la rubrica specifica per il testo: Scripto disopra inq(uest)o a 42];
5001
Bart(1), f. 42r: M(esser) francesco petrarcha;
Bo1(1), f. 39r: Il Detto [= Messere Francesco Petrarcha, f. 38r];
Bo1(2), f. 80r.
Bibliografia: Solerti,
Disperse, p. 186; Costa,
Il codice parmense, p. 75; Di Benedetto,
Col Petrarca minore (1949), pp. 67, 74; Lamma,
Il codice Amadei, p. 175.
Schema metrico: ABBA ABBA CDE CDE
La ricostruzione e silentio di Solerti va drasticamente rivista, anzi, capovolta. La lezione posta a testo dal precedente editore risulta essere infatti un rabberciamento imposto da un guasto risalente all’antigrafo di Pr
1 V5155 (
a), dovuto alla caduta del v. 11: in seguito a questa, la configurazione a rime replicate originaria della sirma CDE CDE (C =
molta :
sciolta; D =
tolse :
volse; E =
sguardo :
ardo), ha indotto il copista a scambiare la successione CD[†] C per un terzetto impostato su rime alternate (CDC). a ha così cercato di porre rimedio alla lacuna eliminando il verso 14 (nel quale la rima E,
ardo, risultava ormai irrelata) e ristrutturando maldestramente lo schema CDC DCD.
Per facilitare la lettura dell’apparato si offre di seguito in forma estesa e in trascrizione quanto possibile critica la testimonianza di a per i vv. 11-14 secondo la lezione di V5155:
Figurai lei d’ogni dolcezza sciolta,
cossì crudel;da lei mai non mi tolse
Amor, che nella mia mente <à> acolta
chome a llui piace, ond’e’ girar mi volse.
La strettissima affinità di Pr
1 e V5155 è confermata peraltro da 8
temo…
che mai (tutti gli altri:
tr(u)ovo…
che mi) e 10
vedi, cosicché, diversamente dal solito, in questo caso il Parmense si trova meno isolato nella tradizione.
Un unico errore al v. 11
l’avezzo individua la sottofamiglia
5001. A monte doveva certamente sussistere, come si deduce dalla coincidenza su veggio di Bart(2) e R939, la forma emiliano-veneta
la vezzo eseguita in
scriptio continua (
lauezzo) e per questo malamente risolta dall’antigrafo del sottogruppo come un esito del verbo ʻavereʼ, per il condizionamento del precedente
così, al quale è stato attribuito valore desiderativo, e forse anche per una presupposta esigenza di
variatio, dato l’identico
la veggio nel verso immediatamente precedente. Affiancano questo errore una serie di innovazioni caratteristiche di questi soli testimoni: 1
stati, contro
facti concordemente testimoniato nella tradizione; l’impiego, al v. 6, del perfetto
uolson, probabilmente prodottosi per interferenza mnemonica della rima del v. 13,
volse, a fronte dell’alternativa
volgon (Bart(2) V5155) /
volgo (Pr
1) /
volto (R939); il costrutto comparativo, sul quale si tornerà più oltre, 10
tant’io…
cotal…, difforme da quello temporale presentato in
a (
Qua(n)do Pr
1 Qua(n)di V5155) e R939 (
Quandio), e affiancato dalla testimonianza di Bart(2)
quant’io; la forma verbale
sguardo del v. 11, preferita alla più comune
guardo (
guarde in R939, con aggiustamento incongruo della rima :
arde), interessante ma non promovibile a testo per la sua posizione nello stemma.
Stanti questi rapporti si possono cercare di risolvere i problemi prodotti dalla diffrazione in assenza al v. 12, ove si contrappongono le lezioni
fuggirò /
figurai /
figure. Vanno in primo luogo fissati alcuni puntelli sintattici: a facilitare l’errore è stato infatti il posizionamento in coda della proposizione principale di una frase dichiarativa introdotta da
in tal pensier sempr’ardo (v. 14) e l’intromissione di due incidentali, la prima al v. 12 (
d’ogni dolcezza sciolta, con funzione attributiva, indicando una caratteristica effettiva di madonna, non il desiderio ʻfiguratoʼ dal poeta: banalizzante dunque la congettura di Di Benedetto,
durezza), ai vv. 13-14 l’altra (
quanto Amor mai volse donna amorosa). Così poste le fondamenta dell’architettura sintattica del sonetto, risulta evidente che né la soluzione
fuggirò che accomuna Bart(2) e la sottofamiglia
5001, venendo così a costituire la più ampia famiglia dei testimoni cinquecenteschi,
500, né le forme del verbo ʻfigurareʼ proposte da R939 e
a (propendono per il perfetto Pr
1 e V5155 rispettivamente con
figuraj lej e
Lefigurai; in R939 si legge la non perspicua
figurelej), sono sufficienti a mantenere in piedi l’edificio: non si vede infatti come la forma
figurai, che desta maggiore interesse, possa mantenere coesa una sintassi che, pur oscillando tra il presente e il perfetto, a partire dal v. 11 si fissa definitivamente sul primo tempo verbale, quando riferita all’io lirico (11
la veggio…
guardo; 14
sempr’ardo). A monte, si postulerà dunque
figuro lei, lezione sufficiente tanto a spiegare in a il passaggio a
figurai lei – sia che si tratti di una reazione a una voce interpretata come perfetto di terza persona (
figurò), sia che la correzione sia intervenuta dopo un passaggio intermedio -
o > -
a al quale è subentrato infine -
ai per recuperare il soggetto –, quanto a giustificare come banale scambio sillabico (
figuro >
fugiro) la lezione attestata nella tradizione cinquecentesca, quanto, ancora, a dar conto del passaggio -
e > -
o nel Riccardiano, data la forte somiglianza tra la
e eseguita in due tratti e la
o nelle scritture quattrocentesche: non per nulla qualche dubbio che la lezione di R939 sia solo frutto di un’esecuzione maldestra della lettera sussiste. Non altrettanto efficace, sul piano sintattico e per la sua giustificazione eziologica, la proposta del Di Benedetto,
Col Petrarca minore (1949), p. 67
Figurar (lo studioso dimentica di includere la lezione tra le sue congetture nella nota giustificativa a p. 74).
Quanto emerso invita anche a fare affidamento sulla parziale confluenza tra Bart(2) e a per la scelta del tempo verbale del verbo ʻvedereʼ al v. 10: contro
veggio del Riccardiano e della sottofamiglia
5001 si preferisce
vidi di Bart(2), fosse pure congetturale: che infatti in
a s’incontri il sicuramente erroneo
vedi è un indizio che rende plausibile l’ipotesi di una lezione d’archetipo; essa infatti spiega la concomitante emersione in
5001 e R939 della banalizzazione
veggio, che facilmente si poteva produrre nei due rami se presente nel verso immediatamente successivo (11
la veggio): proprio per questo
5001, cercando di salvare il testo dalla ripetitività, poteva propendere per un’irricevibile interpretazione della
scriptio la(u)ue(z)zo come forma del verbo ʻavereʼ (
l’a(u)ue(z)zo). Non era troppo difficile però in altro tempo, per Bart(2), divinare la lezione corretta a partire dal
vedi che
a ancora documenta, e che può attribuirsi a un archetipo
x.
Nello stesso verso 10 ancora da Bart(2) si accoglie
Quant’io, con funzione aggettivale (come il lat.
quantus), correlato a
cotal al v. seguente: nulla di persuasivo si ricava accogliendo
Quand’i(o) di
a e R939, che, più che accordo di maggioranza, pare confluenza su innovazione di natura poligenetica (priva di appiglio nella tradizione la congettura
Quale di Di Benedetto; è tuttavia ipotesi che muove nella stessa direzione). Dalla ricostruzione complessiva risulta dunque la seguente partitura: ʻChe io sia solo o in luoghi affollati, quanto splendida era madonna quando la vidi per la prima volta (quant’io vidi colei), così la vedo ovunque io guardo, e immagino (
figuro) lei, che è aliena da ogni dolcezza (
d’ogni dolcezza sciolta), benevola e vaga (di me), quanto Amore non desiderò mai una donna innamorata (
quanto Amor mai volse |
donna amorosa): in questo pensiero mi tormento continuamenteʼ.
Ancora meno chiare le indicazioni stemmatiche per la scelta dell’accordo verbale al v. 6. Si contrappongono infatti
volgon dei cinquecenteschi, che ha l’appoggio in a di V5155 e richiede di essere riferito a
spiriti (v. 5), a
volgo di Pr
1 che sembra trovare riscontro nel pur singolare
volto – anfibologico, essendo risolvibile sia come indicativo presente che come passato composto (
volt’ò) – e sottintende come soggetto l’io poetico. Dato che la scelta del testo base si orienta necessariamente sul Riccardiano (non si accolgono però le sue forme singolari
lidi e
m’asale e si riporta alla misura monosillabica 4
stare, con vocale soprannumeraria) è parso opportuno accogliere la lezione confortata da Pr
1.
Stando al
Corpus OVI la forma raddoppiata del verbo ʻ
as(s)allireʼ risulta rara in Toscana, col supporto di soli quattro testi (
Guittone, Rime (ed. Contini), canz. 3, 133 «e non guaire assallito»;
Lucidario pis., L. 2, quaest. 93 «Puono elli assallire cui elli vuolno?»;
Fatti dei Romani, p. 208 «e ciò loro donò alquanto giusta chagione d’i loronimici asallire»;
Francesco da Buti, Par., c. 27, 55-66 «e come li lupi nelle pasture li assalliscono e divorano le pecore»), nei quali però, come in 54 delle altre 55 attestazioni presenti nel
corpus, la geminazione cade sempre in posizione tonica: unica eccezione si ha nel volgarizzamento di Esopo di Accio Zucco di Sommacampagna (d’autore, dunque, veneto), che nel testimone toscano che la tramanda ha in rima la forma arsalle (
Esopo, 21b, v. 7, «Dio te fé francho, e volte gli ài le spalle! | Non vede tu che’l domonio t’arsalle, | se Dio non pensa remedio novello?»). Più che alla Toscana e dunque al Petrarca, per la rima
valle :
asale (tutti gli altri testimoni hanno ricalibrato la rima sulla forma
a(s)salle) sembra opportuno pensare all’Italia settentrionale e forse al Veneto, per la diversa sensibilità verso le forme raddoppiate che si manifesta in quest’area. Il rilievo esclude per il testo la paternità dell’autore dei
Fragmenta.
[Dario Pecoraro]